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Arthur Clarke: Le sabbie di Marte

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Arthur Clarke Le sabbie di Marte

Le sabbie di Marte: краткое содержание, описание и аннотация

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Classico romanzo di «fantascienza», per usare un neologismo abbastanza efficace, «Le sabbie di Marte» descrive il viaggio inaugurale dell’astronave «Ares» — prima nave di linea regolare fra i pianeti — e le lotte di un gruppo di pionieri del XXI secolo per colonizzare le rosse distese desertiche del pianeta Marte. È una lotta affascinante e paurosa su un mondo in agonia dove non esiste quasi più traccia di vegetazione e l’aria è così povera di ossigeno da essere praticamente irrespirabile. Ma la fine del romanzo darà al lettore la più straordinaria — e la meno impossibile — delle sorprese… «Le sabbie di Marte» è un autentico capolavoro della narrativa a sfondo scientifico e fantastico. Non per nulla il suo autore, Arthur C. Clarke, è un noto scienziato, membro della British Astronomical Association e Presidente della Società interplanetare britannica.

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«Dal momento che mi pagano a battuta non vedo che differenza faccia. Le due parole sono lunghe uguali, no?»

«A pagina quattro ci sono due frasi di seguito che cominciano tutte e due con perciò. »

«Senti, vuoi spedirmi questa maledetta roba, oppure devo arragiarmi da solo?»

Bradley rise.

Pur seguitando a parlare, Bradley aveva cominciato a far scivolare i fogli nel vassoio del trasmettitore automatico. Gibson li guardava, affascinato, sparire a uno a uno entro le viscere della macchina, per emergere cinque secondi dopo entro il collettore radiotelegrafico. Gli faceva un effetto curioso pensare che in quel momento le sue parole stessero già percorrendo lo spazio.

Stava raccogliendo nuovamente i suoi fogli dattiloscritti, quando dalla selva di quadranti, interruttori e cruscotti che coprivano praticamente l’intera parete del minuscolo ufficio risuonò il brusio di un cicalino. Bradley si tuffò su un ricevitore e cominciò a eseguire con la massima rapidità movimenti incomprensibili. Da un megafono uscì a un tratto un fischio lacerante.

«Il missile è finalmente entro il nostro raggio» disse Bradley, «ma è ancora molto lontano… così, a occhio e croce, credo che ci mancherà per un buon centomila chilometri.»

«Che cosa si può fare per richiamarlo?»

«Ben poco. Ho acceso il radiofaro, e se il razzo riuscirà a captare le nostre segnalazioni modificherà automaticamente la rotta navigando a pochi chilometri dal nostro raggio.»

«E se non ci riesce?»

«Pazienza! Seguiterà a tirare dritto finché sfreccerà fuori del nostro sistema, dato che viaggia abbastanza in fretta per sfuggire all’attrazione solare… Del resto può succedere anche a noi la stessa cosa.»

«Che allegria! E quanto tempo ci si mette?»

«A fare cosa?»

«A lasciare il sistema solare.»

«Un paio d’anni, pressappoco. Ma sarebbe meglio chiederlo a Mackay. Io non conosco la risposta a tutto, non sono uno di quei tipi che si trovano nei tuoi libri, sai?»

«Non è detto» replicò Gibson, e si ritirò.

L’avvicinarsi del razzo aveva prodotto un inatteso e gradito fermento di emozione a bordo dell’ Ares. Esaurito il diversivo dato dalla novità, un viaggio interspaziale poteva diventare terribilmente monotono. Certo in avvenire sarebbe stato diverso, quando la grande astronave avesse brulicato di vita, ma adesso c’erano momenti in cui le sue cabine e i suoi saloni deserti e silenziosi diventavano opprimenti.

Le scommesse sulla sorte del razzo erano state organizzate dal dottor Scott, ma le quote erano state inesorabilmente fissate dal capitano Norden.

I calcoli di Mackay facevano prevedere che il proiettile avrebbe mancato l’ Ares per centoventicinquemila chilometri, con un margine di trentamila chilometri in più o in meno. La maggior parte delle scommesse si basava sul margine più probabile, ma qualche pessimista si era spinto addirittura ai duecentocinquantamila chilometri. Naturalmente le poste non erano in denaro, ma consistevano in assai più pregevoli beni di consumo quali sigarette, dolci e altri generi di lusso.

Poiché il massimo peso individuale concesso a ciascun membro dell’equipaggio era strettamente limitato, questi oggetti erano assai più ricercati che non qualche banconota, anche se di grosso taglio. Mackay era giunto a mettere nel l’ondo comune persino una mezza bottiglia di whisky, assicurandosi così, in caso di vittoria, un volume di spazio del diametro di quasi ventimila chilometri.

«Entra, entra pure» disse Gibson senza neppure alzare gli occhi dalla macchina da scrivere. La porta si era aperta per lasciare volteggiare nella cabina Jimmy Spencer.

«Vi ho portato il libro, signor Gibson. Ci troverete tutto quello che vi serve. Si tratta di Elementi di Astronautica di Richardson, edizione speciale superleggera.»

Posò il volume davanti a Gibson, il quale prese a sfogliarne le pagine trasparenti con un interesse che andò via via decrescendo a mano a mano che aumentava la difficoltà di comprendere le formule matematiche. Rinunciò definitivamente a qualsiasi tentativo quando giunse a una pagina la cui sola frase era la seguente: "Sostituendo il valore della distanza del perielio all’equazione 15,3 otteniamo…". Tutto il resto erano formule.

«Sei proprio sicuro che sia il libro più elementare che esista a bordo di questa nave?» domandò in tono dubbioso. Era rimasto un poro sorpreso quando aveva saputo che Spencer era stato nominato suo precettore ufficioso, ma non era poi così sciocco da non averne intuita la ragione: tutte le volte che c’era qualcosa che nessuno voleva fare finivano per accollarla a Jimmy.

«Sì, è abbastanza elementare. Se la cava senza notazioni di vettori e non tocca la teoria delle perturbazioni. Dovreste vedere i libri dove ogni equazione occupa un paio di pagine.»

«Un momento! Prima di andartene potresti forse chiarirmi un punto che è di attualità. Molta gente si preoccupa ancora delle meteore, e mi è stato chiesto di fornire qualche dato preciso sull’argomento. Sono davvero tanto pericolose come si dice?»

Jimmy rifletté un istante, poi rispose: «Su questo argomento potrei rispondervi solo approssimativamente. Vi consiglio di rivolgervi al signor Mackay. Lui ha tutte le tavole con le cifre esatte.»

«Va bene. Ne parleremo con Mackay.»

Gibson avrebbe potuto benissimo comunicare con Mackay mediante il telefono interno, ma tutte le scuse per piantare il lavoro erano buone.

Trovò l’astronauta intento a estrarre toni melodiosi da una grande macchina calcolatrice elettronica.

«Le meteore?» disse Mackay. «Ah, già, un argomento di estremo interesse. Ho l’impressione che sull’argomento siano state pubblicate una quantità di informazioni errate. Ancora poco tempo fa quasi tutti erano convinti che un’astronave sarebbe stata immediatamente disintegrata dalle meteore non appena avesse lasciato l’atmosfera.»

«E molti ne sono convinti ancora.»

Mackay emise un grugnito di sdegno.

«Le meteore sono molto meno pericolose dei fulmini, e le più grosse di solito hanno le dimensioni di un pisello.»

«Ma dopo tutto un’astronave ne è stata seriamente danneggiata!»

«Quale? Alludi alla Star Queen ? Mi pare che un solo incidente grave in cinque anni costituisca un dato alquanto confortante. Ma il fatto è che nessuna astronave si è mai veramente perduta per colpa delle meteore.»

«E la Pallas

«Nessuno può dire che cosa le sia successo. È convinzione popolare che la causa sia stata una meteora, ma i tecnici la pensano diversamente.»

«Perciò posso dire tranquillamente al pubblico di non preoccuparsi?»

«Si capisce. C’è piuttosto la questione della polvere…»

«Della polvere?»

«Ecco, se per meteore s’intendono particelle abbastanza grandi, di un paio di millimetri o poco più, non è il caso di preoccuparsi. Ma la polvere è un vero disastro, soprattutto sulle stazioni spaziali. Ogni tanto bisogna che qualcuno esca a localizzare le forature, di solito troppo piccole per essere visibili a occhio nudo. Una molecola di polvere stellare che marcia alla velocità di cinquanta chilometri il secondo è capace di perforare una lastra metallica di grande spessore.»

Questa notizia parve a Gibson un tantino allarmante, ma Mackay si affrettò a tranquillizzarlo.

«La realtà è che non c’è proprio nessun motivo di preoccuparsi» ripeté alla fine. «Un minimo di dispersione nell’ossatura di un’astronave si verifica sempre, ma ci pensa il rifornimento dell’aria a compensarlo.»

Per quanto indaffarato fosse, o pretendesse di essere, Gibson trovava sempre il tempo per vagabondare irrequieto attraverso i labirinti pieni d’echi dell’astronave, o per sedersi a contemplare le stelle dal ponte d’osservazione equatoriale. Aveva preso l’abitudine di andarci durante il concerto quotidiano. Tutti i giorni alle 15.00 precise l’altoparlante della nave entrava in azione e per un’ora la musica terrestre sussurrava o rumoreggiava per i corridoi vuoti.

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