Murray Leinster - L'arma mutante

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“L’auto di Calhoun discese il lato opposto del ponte. Fece una curva su due ruote. Sfrecciò davanti a due giganteschi edifici vuoti e giunse a una strada laterale, vi si infilò, giunse ancora a un bivio, prese la strada di sinistra e poco dopo si diresse a destra. Ma le voci continuavano a risuonare nel comunicatore. Uno degli invasori ebbe l’ordine di andare sul ponte più alto dal quale potesse controllare tutte le strade sottostanti. Altri dovevano appostarsi qua e là... e stare in agguato. Un gruppo di quattro automobili stava uscendo dall’edificio del magazzino. Fulminate ogni automobile in movimento. Fulminatela! E fate rapporto, fate rapporto!”
Torna Murray Leinster il decano dalla SF. In questo inedito romanzo della serie dell’Astronave Medica, Calhoun si trova di fronte a un mortale mistero che rischia di pregiudicare l’intera colonizzazione umana sui pianeti della Galassia. Il flagello imperversa e Calhoun deve agire rapidamente se vuole che il destino di Maris III non si ripeta su scala cosmica.

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— Ciii, ciii, ciii! — balbettò Murgatroyd disperatamente. — Ciii, ciii!

— Zitto! — grugnì Calhoun. — Qualche intelligentone a terra ha escogitato un nuovo modo di commettere un assassinio. E c’è quasi riuscito, anche! Ha pensato di scuoterci a morte come fa un cane con un topo, solo che lui usava una griglia di atterraggio. Spero proprio di averlo abbrustolito!

Ma non era probabile. Quantità di potenza come quelle usate per far atterrare una nave di ventimila tonnellate non sono controllate direttamente, ma per mezzo di comandi a distanza. La potenza che Calhoun aveva gettato nel campo di forza della griglia avrebbe fatto saltare i trasformatori della griglia con un bell’effetto di fuochi artificiali, ma era poco probabile che avesse raggiunto la persona che stava ai comandi.

— Ma sospetto, — disse Calhoun con aria vendicativa, — che considererà la faccenda come un avvenimento sfavorevole. Qualcuno gli salterà in testa anche, o per aver tentato di fare una cosa del genere oppure per non essere riuscito a farla. Solo che, soltanto a scopo di precauzione…

La sua espressione cambiò improvvisamente. Aveva tentato di non pensare al fatto che non aveva alcuna visibilità del cosmo fuori dalla nave. Ora gli venne in mente il telescopio elettronico. Non era stato in funzione, quindi non avrebbe potuto essere stato bruciato come gli schermi televisivi. Lo mise in funzione. Sulla sua testa apparve un campo di stelle.

— Ciii, ciii! — gridò istericamente Murgatroyd. Calhoun gli diede un’occhiata. Le scosse della nave avevano spostato gli strumenti della rastrelliera alla quale si era aggrappato Murgatroyd: pur fissati com’erano, si erano spostati tanto da imprigionare saldamente la coda del tormal.

— Dovrai aspettare, — gli gridò Calhoun. — In questo momento devo fare in modo che il nostro sembri un incidente riuscito. Altrimenti chiunque abbia voluto spiaccicarci in cabina tenterà qualcos’altro.

La Nave Medica schizzava nello spazio alla velocità che aveva avuto quando il campo di forza si era spezzato. Calhoun spostò il campo visivo del telescopio e simultaneamente mise in funzione i razzi di emergenza. Ci fu il rumoreggiare degli scoppi sottili come una matita e ad alta velocità. La nave si impennò.

— Niente percorsi diretti — ricordò Calhoun a se stesso.

Fece entrare la nave in una spirale da capogiro, come se innumerevoli cose si fossero sganciate nel suo interno e i suoi razzi si fossero accesi da soli. Faticosamente fece esplodere all’esterno tutte le immondizie che avevano dovuto essere immagazzinate durante il viaggio in superpropulsione perché non potevano essere espulse in quelle condizioni di volo. A qualunque strumento di esplorazione spaziale da terra sarebbero apparse come una esplosione avvenuta nell’interno della nave.

— Ora… Il pianeta Maris III ruota attraverso il campo del telescopio elettronico. Sembrava orrendamente vicino, ma dipendeva dall’integramento del telescopio. Eppure Calhoun sudò. Per rassicurarsi guardò il quadrante dell’indicatore di vicinanza. Il pianeta era più vicino di una quindicina di miglia di chilometri.

— Ah! — disse Calhoun.

Cambiò la direzione a spirale della nave. La cambiò ancora. E improvvisamente invertì la direzione della sua rotazione. Un adeguato allenamento in combattimento spaziale avrebbe potuto contribuire a definire una rotta di fuga, ma avrebbe potuto essere riconoscibile. Mentre ora nessuno avrebbe potuto prevedere le sue manovre. Regolò il telescopio la prima volta che il pianeta passò nel suo campo visivo e fece scattare il fotoregistratore. Poi uscì dalla spirale, fece turbinare la nave fin che la città fu inquadrata dal telescopio, e fece funzionare il fotoregistratore tanto a lungo quanto osò mantenere la nave su una rotta diritta. Poi si tuffò verso il pianeta con una pazza caduta a spirale con sbandate intermittenti e compì un ultimo folle balzo quasi parallelo alla superficie del pianeta.

A ottocento chilometri dal suolo scoprì gli oblò che dovevano essere tenuti necessariamente schermati nello spazio. C’era un cielo illuminato vivamente dalle stelle. E c’era una profonda oscurità a tribordo che era l’emisfero notturno del pianeta.

Discese. A seicento chilometri l’indicatore della pressione esterna oscillò. Lo usò come un indicatore di tubo di Pitot, facendo a mente le somme per trovare la pressione statica che doveva esistere a questa altezza, per confrontarla con la pressione dinamica prodotta dalla sua velocità attraverso il vuoto quasi assoluto. La pressione avrebbe dovuto essere sostanzialmente zero. Capovolse la nave e diminuì la velocità per diminuire l’indicazione della pressione. La nave discese. Trecento chilometri. Vide la sottile linea luminosa al bordo del pianeta. Giù a centocinquanta chilometri. Spense i razzi e lasciò calare la nave silenziosamente con la punta rivolta verso l’alto.

A quindici chilometri controllò se ci fossero radiazioni prodotte dall’uomo. Nello spettro elettromagnetico non c’era niente, salvo il crepitare delle scariche statiche in una tempesta elettrica che doveva essere lontana almeno 1.500 chilometri. A otto chilometri di altitudine l’indicatore di vicinanza, al punto più basso della sua scala numerica, ondeggiò in modo da fargli capire che egli si stava spostando lateralmente attraverso un terreno montagnoso. Raddrizzò la nave e diminuì anche la velocità.

A tre chilometri usò i razzi per decelerare. La fiamma sottile come una matita si spinse verso il basso a una incredibile distanza. Per mezzo della osservazione a occhio nudo da un oblò, inclinò la nave che scendeva velocemente rombando, fino a che le colline e le foreste sotto di lui smisero di muoversi. A quel punto era davvero a bassa quota.

Toccò terra sul fianco di una montagna che fu illuminata dalla fiamma bianco azzurrina degli scarichi dei razzi. Scelse un’area in cui le cime degli alberi erano quasi allo stesso livello, indicando che spuntavano da qualcosa di simile a un pianoro. Murgatroyd era a quel punto praticamente fuori di sé per il suo imprigionamento e la pressione sulla coda, ma Calhoun non aveva tempo di liberarlo. Fece calare la nave lentamente, tentando di scendere lungo una linea perfettamente verticale.

Se non vi riuscì perfettamente, ci andò molto vicino. La nave si adagiò in quello che era praticamente un tunnel scavato dal fuoco tra alberi mostruosi. La sottile fiammata ad alta velocità non si allargò quando toccò il suolo. Penetrò. Si scavò un foro per sé attraverso l’humus, l’argilla e la roccia e quando la nave si posò definitivamente, stabilizzandosi, c’erano sotto di essa una ventina di metri di pietra fusa ribollente; ma quando si fermò si udì soltanto un piccolo suono stridente. Un ramo d’albero, amputato dalla fiamma, accarezzò gentilmente lo scafo.

Calhoun spense i razzi. La nave oscillò leggermente e si udirono suoni di scricchiolii. Poi rimase immobile sugli alettoni di atterraggio.

— Ora, — disse Calhoun, — posso occuparmi di te, Murgatroyd.

Mise in funzione i microfoni esterni, che erano più sensibili delle orecchie umane. I rivelatori di radiazioni erano ancora in funzione. Trasmettevano soltanto il crepitio della tempesta lontana.

Ma i microfoni introdussero l’ululare del vento sulle vicine cime dei monti ed il sussurrare quasi assordante delle foglie che stormivano. Sotto quei suoni c’era un accavallarsi di altri rumori naturali. Erano cinguettii e squittii e i grugniti della vita animale locale. Questi suoni avevano una qualità singolarmente pacifica. Quando Calhoun li abbassò, fino a farne un rumore di sottofondo, suggerirono quella specie di concerto di creature notturne che per gli uomini è sempre stato un’indicazione della più assoluta tranquillità.

Subito dopo Calhoun osservò le telefoto che il telescopio aveva scattato quando passava sopra la città. Era la città coloniale che il rapporto indicava essere stata iniziata due anni prima per ricevere i coloni di Dettra Due. Era la città della griglia di atterraggio che aveva tentato di distruggere la nave medica come un cane uccide un topo, scuotendola per ridurla in pezzi a circa sessantacinquemila chilometri nello spazio. Era la città che aveva costretto Calhoun ad atterrare con i suoi schermi visivi accecati; che lo aveva costretto a fingere che la sua nave era un rottame; che aveva assorbito le sue riserve di potenza di qualche centinaio di milioni di kilowatt/ora di energia. Era la città che aveva reso impossibile il suo ritorno al Quartier Generale.

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