Murray Leinster - Primo contatto

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Murray Leinster

Primo contatto

Tommy Dort entrò nella cabina del capitano con l’ultimo paio di stereofoto e disse:

«Ho finito, signore. Queste sono le due ultime fotografie che ho potuto scattare».

Gli porse le fotografie e guardò con interesse professionale le visipiastre che mostravano lo spazio, fuori della nave. La cabina era pervasa da una fioca luminosità rossa che rivelava quanto bastava dei comandi e degli strumenti necessari al pilota per la navigazione dell’astronave Llanvabon. La poltroncina davanti ai comandi aveva un’imbottitura molto spessa. E c’era la piccola, ingegnosa struttura formata da specchi posti a strane angolature — remoto discendente degli specchietti retrovisivi degli automobilisti del ventesimo secolo — che consentiva di tener d’occhio tutte le visipiastre senza girar la testa. E c’erano le piastre giganti che garantivano, a chi lo volesse, ampie panoramiche della distesa stellata.

La Llanvabon era molto lontana da casa. Le visipiastre, che potevano esser portate a qualsiasi ingrandimento desiderato, mostravano stelle di ogni immaginabile grado di splendore, nello stupefacente caleidoscopio di colori che esibivano fuori dell’atmosfera. Ma erano quasi tutte sconosciute. Soltanto due costellazioni erano riconoscibili, fra quante si vedevano dalla Terra, ma rimpicciolite e distorte. La Via Lattea pareva vagamente fuori posto. Ma perfino queste stranezze erano cose da poco in confronto alla vista mostrata dalle piastre di prua.

Davanti a loro c’era un’immensa nebulosità, impalpabile e luminescente. Pareva immobile. Ci volle molto tempo perché le piastre visive mostrassero un apprezzabile avvicinamento, anche se l’indicatore della nave spaziale mostrava un’incredibile velocità. Quella nebbia luminosa era la Nebulosa del Granchio, lunga sei anni-luce, profonda tre anni-luce e mezzo, con delle porzioni che si protendevano verso l’esterno e, vista con i telescopi della Terra, assomigliava un po’ alla creatura da cui aveva preso il nome. Era una nube di gas infinitamente tenue, che si estendeva su una distanza pari a una volta e mezza quella del Sole dalla stella più vicina. Nel cuore della nube ardevano due stelle, che formavano un sistema doppio: una del familiare color giallo del Sole, l’altra d’un bianco sacrilego.

Tommy Dort disse, pensieroso: «Siamo diretti dentro una fossa, signore?»

Il comandante studiò le due ultime lastre prese da Tommy, poi le mise da parte. Tornò a contemplare con un certo disagio le visipiastre anteriori. La Llanvabon stava decelerando al massimo. Si trovava a solo mezzo anno-luce dalla nebulosa. Il lavoro di Tom si era prolungato per tutta la rotta di avvicinamento della nave, e adesso era finito. Durante tutta la permanenza della nave esploratrice all’interno della nebulosa, Tommy Dort avrebbe oziato. Ma fino a quel momento si era più che pagato il viaggio.

Aveva appena completato la registrazione fotografica del movimento d’espansione d’una nebulosa durante un periodo di quattromila anni… una registrazione eseguita da una sola persona, sempre con la stessa apparecchiatura e lo stesso controllo delle esposizioni per individuare e registrare qualunque errore sistematico — un primato davvero unico. In sé questo era già un successo che valeva il viaggio dalla Terra. Ma Tommy Dort in aggiunta aveva anche registrato quattromila anni di storia d’una stella doppia, e altresì quattromila anni di storia d’una stella nell’atto di degenerare in una nana bianca.

Non che Tommy Dort avesse un’età di quattromila anni. In realtà, aveva da poco oltrepassato la ventina. Ma la Nebulosa del Granchio si trova a quattromila anni-luce dalla Terra, e le ultime due fotografie erano state prese ad una luce che non avrebbe raggiunto la Terra fino al sesto millennio d.C. Lungo tutto il percorso — a velocità che erano multipli incredibili della velocità della luce — Tommy Dort aveva fissato sulle sue lastre ogni aspetto della nebulosa, con la luce che l’aveva lasciata a partire da quaranta secoli prima, fino a sei mesi prima.

La Llanvabon continuava la sua corsa attraverso lo spazio. Con estenuante lentezza l’indescrivibile luminosità avanzava, strisciante, e un po’ alla volta invadeva l’intera superficie delle visipiastre. Cancellava ormai alla vista una buona metà dell’universo. Davanti a loro si stendeva una nebbia ardente; alle loro spalle, un vuoto punteggiato di stelle. La nebulosità giunse poi a escludere alla loro vista tre quarti di tutte le stelle. Alcune delle più luminose continuavano a baluginare, fioche, attraverso la nebbia, vicino ai suoi bordi, ma erano assai poche. Infine, rimase soltanto una chiazza irregolare di buio a poppa, sul cui sfondo le stelle brillavano senza palpitare. La Llanvabon si era ormai tuffata dentro la nebula, e parve che penetrasse in una galleria di tenebra con pareti di nebbia scintillante.

Il che era proprio ciò che la nave spaziale stava facendo. Già le prime fotografie, alla maggiore distanza, avevano rivelato la presenza di strutture nella nebulosa. Non era un ammasso amorfo di gas. Man mano la Llanvabon aveva continuato ad avvicinarsi, le indicazioni d’una struttura si erano fatte più precise, e Tommy Dort aveva sostenuto la necessità d’un avvicinamento in curva per motivi fotografici. Così, la nave spaziale aveva compiuto l’ultima parte del viaggio seguendo una curva logaritmica, e Tom in tal modo era stato in grado di, prendere successioni di fotografie ad angoli sempre diversi, ottenendo così delle stereoscopie che mostravano la nebulosa a tre dimensioni; e questo aveva rivelato una struttura assai complicata fatta di ondulazioni simili a quelle d’un cervello umano. La nave si era appunto tuffata dentro una di queste cavità. Erano state chiame «fosse» per analogia con i profondi crepacci che incidevano il fondo degli oceani terrestri. E promettevano di essere assai utili alla missione della nave.

Il comandante si rilassò. Oggigiorno, una delle funzioni d’un comandante è quella di cercare sempre qualcosa di cui preoccuparsi, e poi preoccuparsene. Il comandante della Llanvabon era assai coscienzioso, e soltanto dopo che un certo strumento non aveva registrato più nulla in modo tassativo, si era lasciato andare sullo schienale della poltroncina.

«C’era sempre la possibilità», dichiarò, «che queste fosse potessero risultar piene di gas non luminoso. Invece sono vuote. Così saremo in grado di usare l’iperpropulsione finché ci staremo dentro».

C’era un anno-luce e mezzo dal bordo della nebulosa al sistema della stella doppia che ne costituiva il cuore. Questo, appunto, era il problema. Una nebulosa è un gas. È talmente rarefatto che al suo confronto la coda di una cometa è solida, ma una nave che viaggia in iperpropulsione — ben oltre la velocità della luce — non deve urtare neppure contro un vuoto spinto (una rarefazione come quella ottenuta con le migliori pompe). Ha bisogno del vuoto puro, assoluto, come quello esistente fra le stelle. Ma la Llanvabon non avrebbe potuto far granché in quell’ammasso di nebbia se avesse dovuto limitarsi alle velocità consentite dal solo vuoto spinto.

La luminosità parve chiudersi del tutto dietro la nave spaziale, che continuava a decelerare. L’iperpropulsione si spense con l’improvvisa sensazione di risonanza metallica che percorre il corpo d’un uomo quando il campo iperpropulsivo viene staccato.

Poi, quasi nello stesso istante, i campanelli presero a squillare, invadendo l’intera nave col loro stridulo baccano. Tommy fu quasi assordato dal campanello d’allarme che risuonò nella cabina di comando, prima che il capitano lo facesse tacere con un colpo della mano. Ma in tutto il rimanente della nave si udirono squillare in distanza gli altri campanelli, il cui clangore andò via via spegnendosi al successivo rinchiudersi delle porte automatiche.

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