Murray Leinster - Primo contatto

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«Uhmmm… Qual è la sua impressione circa la loro psicologia?» Il comandante si era rivolto allo psicologo.

«Non saprei, signore», rispose questi, preoccupato. «Sembrano del tutto sinceri. Ma non hanno lasciato trapelare neppure un po’ della tensione che, sappiamo, deve senz’altro esistere laggiù. Si comportano come se stessero semplicemente installando un mezzo di comunicazione tra amici. Ma c’è… be’… c’è una sfumatura…»

Quello psicologo si era sempre mostrato in gamba quando si era trattato di valutare la psicologia degli umani, una cosa assai bella e utile. Ma non era attrezzato per analizzare uno schema di pensiero del tutto alieno.

«Se posso permettermi, signore…» disse Tommy, a disagio.

«Sì?»

«Respirano ossigeno», proseguì Tommy. «E non sono molto diversi da noi anche sotto altri aspetti. Mi sembra, signore, che vi sia stata un’evoluzione parallela. Forse l’intelligenza si evolve in linee parallele proprio come… si… le funzioni basilari del corpo. Voglio dire», puntualizzò, «qualunque essere vivente, di qualunque tipo, deve ingerire, metabolizzare ed espellere. E forse, allo stesso modo, ogni cervello intelligente deve percepire, valutare e avere reazioni personali. Sono sicuro di aver percepito dell’ironia. Ciò implica anche l’esistenza di umorismo. In breve, signore, penso che possano rivelarsi creature piacevoli».

Il comandante si alzò in piedi.

«Hmmm…» fece, pensieroso, «vedremo quello che hanno da dire».

S’incamminò verso la cabina di comunicazione. Il trasmettitore d’immagini collegato al robot alieno era pronto, e il comandante si piazzò davanti ad esso. Tommy Dort si sedette alla macchina codificatrice e cominciò a battere sui tasti. Ne uscirono dei rumori del tutto improbabili che entrarono in un microfono e qui modularono la frequenza d’un segnale inviato all’altra astronave attraverso lo spazio. Quasi subito la visipiastra del robot sferico si accese, mostrando l’interno illuminato dell’altra nave. Un alieno si portò davanti all’obbiettivo e sembrò guardar fuori, in attesa, dalla visipiastra. La sua somiglianza con un essere umano era sbalorditiva. Ma non era umano. Era completamente calvo, e li fissò con uno sguardo schietto, con una vaga ombra ironica.

«Vorrei dire», cominciò il comandante, con voce grave, «le cose giuste, in questo primo contatto fra due differenti razze civilizzate, ed esprimere la speranza che tra i nostri due popoli s’instauri un rapporto d’amicizia».

Tommy Dort esitò, poi scrollò le spalle e batté con mano esperta sulla codificatrice. Altri improbabili rumori.

Il comandante alieno ricevette il messaggio. Fece un gesto di assenso, anche se non del tutto convinto. Il decodificatore sulla Llanvabon prese a ronzare e una successione di schede, una per parola, cadde giù in bell’ordine formando il messaggio in risposta nell’apposito riquadro. Tommy annunciò, con voce incolore:

«Signore, sta dicendo: “Tutto ciò suona bene, ma c’è un sistema che permetta a entrambi di tornare a casa vivi? Sarei felice se lei mi potesse descrivere un simile sistema, nel caso sia riuscito a idearlo. Al momento, mi pare inevitabile che uno di noi due debba essere ucciso”».

La confusione era al colmo. C’erano troppe domande che avrebbero dovuto trovar subito una risposta. Ma nessuno poteva rispondere a tutte. Eppure, bisognava.

La Llanvabon avrebbe potuto ripartire verso casa. La nave aliena poteva essere in grado, oppure no, di moltiplicare la velocità della luce per una unità in più rispetto al vascello terrestre. Se era in grado di andar più veloce, la Llanvabon avrebbe finito per arrivare abbastanza vicina alla Terra, rivelando la sua destinazione, e qui esser costretta a combattere. Avrebbe vinto, oppure no. Ma anche se avesse vinto, gli alieni potevano disporre d’un sistema di comunicazione grazie al quale informare il loro pianeta d’origine, prima dell’inizio della battaglia, di dov’era situata la base di partenza della Llanvabon. Ma la nave dei terrestri avrebbe anche potuto venire sconfitta. E se il suo destino era quello di finire distrutta, allora sarebbe stato meglio che ciò avvenisse qui, dove non avrebbe fornito nessun indizio circa la zona di spazio in cui gli esseri umani avrebbero potuto esser trovati da una flotta da guerra aliena, preavvertita e armata fino ai denti.

Ma… la nave nera si trovava esattamente nell’identica situazione. Anch’essa avrebbe potuto ripartire verso casa. Ma la Llanvabon poteva rivelarsi più veloce e tallonarla (la traccia lasciata da un campo iperpropulsivo non era affatto difficile da seguirsi, se ci si metteva all’opera con prontezza e con gli strumenti adatti). Inoltre, anche gli alieni non potevano sapere se la Llanvabon era in grado di far rapporto alla sua base di partenza anche da quell’immensa distanza. E se c’era una forte probabilità di venir distrutti, anche gli alieni avrebbero preferito combattere là nella nebulosa, piuttosto che far da guida a un probabile nemico fino al cuore della propria civiltà.

Quindi, nessuna delle due navi poteva pensare di fuggire. Era possibile che la nave nera conoscesse la rotta della Llanvabon all’interno della nebulosa, ma questa era una curva logaritmica, e poteva esser seguita all’indietro, questo è vero, ma senza conoscere il punto esatto in cui la curva aveva avuto inizio, era impossibile conoscere la direzione da cui la nave dei terrestri era arrivata attraverso la Galassia. Per il momento, dunque, le due navi erano alla pari. Ma la domanda era, e restava: «E adesso?»

Non c’era nessuna risposta specifica. Gli alieni scambiavano informazioni al ritmo di una data per una ricevuta — e non sempre sembravano rendersi conto di quali informazioni in realtà stessero dando. Anche per gli umani si procedeva al ritmo di un’informazione data per una ricevuta — e Tommy Dort sudava sangue per l’ansia di non fornire nessun indizio circa l’ubicazione della Terra.

Gli alieni vedevano alla luce infrarossa, e le visipiastre e le telecamere degli umani e degli alieni dovevano far variare le rispettive frequenze di trasmissione di un’intera ottava all’insù o all’ingiù perché le immagini trasmesse dall’una all’altra nave fossero reciprocamente visibili. Agli alieni non venne in mente che le caratteristiche della loro vista rivelavano che il loro sole era una nana rossa, il cui massimo di radiazione si trovava a una frequenza appena al di sotto di quella minima visibile agli occhi umani. Ma non appena sulla Llanvabon ci si congratulò per questa brillante deduzione, ci si rese conto che anche gli alieni, in base al tipo di radiazione cui erano sensibili gli occhi umani, potevano aver dedotto il tipo di luce irradiato dal Sole.

C’era un congegno per la registrazione dei pacchetti d’onde corte che veniva usato correntemente tra gli alieni, così come gli uomini usavano i registratori di suoni. Gli umani bramavano averlo a tutti i costi. E allo stesso modo gli alieni erano affascinati dai misteri del suono. Naturalmente, gli alieni erano, si, in grado di percepire i suoni, ma allo stesso modo in cui il palmo della mano di un uomo percepisce la luce infrarossa attraverso la sensazione del calore, ma non riuscivano a distinguere l’altezza di un suono, o il timbro, più di quanto un uomo sia capace di distinguere fra due frequenze di radiazione termica, anche se separata da una mezza ottava. Per quegli alieni, la scienza umana dei suoni era una straordinaria scoperta. Avrebbero trovato usi, per i rumori, che gli umani non si sarebbero mai sognati… se fossero sopravvissuti.

Ma quello era un problema secondario. Nessuna delle due navi poteva partire se prima non avesse distrutto l’altra. Ma, mentre il flusso delle informazioni continuava, nessuna delle due navi poteva permettersi di distruggere l’altra. C’era altresì la faccenda del colore esterno delle due navi. La Llanvabon risplendeva, all’esterno, come uno specchio; la nave aliena era d’un nero tenebroso alla luce visibile. Assorbiva perfettamente il calore, e avrebbe dovuto irradiarlo con altrettanta prontezza. Ma non era così. Quel rivestimento nero non la rendeva equivalente a un «corpo nero», non era, cioè, una mancanza assoluta di «colore». In realtà, era una perfetta superficie riflettente per certe lunghezze d’onda infrarosse; altre, a una frequenza più alta, le assorbiva, convertendone una parte a una frequenza più bassa, di frequenza uguale alle radiazioni riflesse. Grazie a questa sorta di «fluorescenza» nell’infrarosso, la nave aliena si garantiva un perfetto equilibrio termico e manteneva costante la temperatura interna anche lì, nel vuoto.

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