William Gibson - Neuromante

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Immaginate un futuro alla Bladerunner, non molto lontano dal nostro presente, un mondo di cupa delinquenza e di elevata tecnologia, di droghe e computer, di traffico nero di organi umani, di trapianti e di sfrenata ricchezza, di popolosi quartieri dove si aggira il più torbido sottobosco umano, un mondo di cyborg e di tetre strade notturne, di fatiscenti metropoli illuminate da un cielo grigiastro per le colorate luci al neon e gli ologrammi dei locali malfamati.
In questo mondo si muove Case, che un tempo era stato il miglior “cow boy” d’interfaccia, un uomo che con la mente riusciva a entrare e muoversi nell’incredibile mondo delle matrici dei computer, nel cosiddetto “cyberspace”, dove la sua essenza disincarnata frugava nelle banche-dati delle ricchissime corporazioni che dominavano la Terra e rubava le informazioni richieste dai suoi mandanti. Ma poi Case aveva commesso il classico errore, aveva cercato di rubare anche ai suoi mandanti, di tener per sé parte del bottino. E, scoperto, era stato vittima di un destino cui avrebbe preferito la morte: il suo sistema nervoso era stato danneggiato in maniera tale che non avrebbe più potuto entrare nel misterioso e bellissimo mondo del “cyberspace”. Ma forse Case aveva ancora un’altra possibilità, e stava soltanto a lui sfruttarla a dovere.
Un romanzo magnifico e avvincente, che unisce in maniera splendida un’accurata estrapolazione sociale e tecnologica a una incredibile serie di personaggi dipinti con maestria e con uno stile vivido e immediato, da un nuovo scrittore che ha già conquistato il pubblico d’oltre oceano e si avvia a diventare uno dei nuovi “grandi” della fantascienza mondiale.
Vincitore dei premi Nebula e Philip K. Dick in 1984.
Vincitore del premio Hugo in 1985.

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I riflessi colorati scivolavano sulle lenti di Molly mentre i lottatori si muovevano in cerchio. Gli ologrammi erano ingrandimenti alla decima potenza, i coltelli che impugnavano erano lunghi soltanto d’un capello meno d’un metro. La stretta d’un combattente con il coltello è quella di uno schermidore, ricordò Case: le dita incurvate, il pollice allineato con la lama. I coltelli parevano muoversi di propria iniziativa, planando con una rituale mancanza di fretta attraverso gli archi e i più complicati passaggi della loro danza, la punta che guizzava accanto all’altra punta mentre gli avversari guatavano in attesa d’un minimo spiraglio. Il viso rivolto all’insù di Molly era liscio e immobile, intento a osservare.

— Vado a cercare qualcosa da mangiare — disse Case. Lei annuì, smarrita nella contemplazione della danza.

Non gli piaceva quel posto.

Si girò e rifece il percorso inverso in mezzo alle ombre. Troppo buio. Troppo tranquillo.

Vide che la folla era composta soprattutto di giapponesi. Non una vera folla di Night City. Tecnici scesi fin laggiù dai loro falansterii. Suppose che ciò significasse che l’arena aveva l’approvazione del comitato ricreativo di qualche grossa multi. Si chiese per un attimo cosa avrebbe significato lavorare tutta la vita per qualche zaibatsu. La casa della compagnia, l’inno della compagnia, il funerale della compagnia.

Fece quasi un giro completo della cupola prima di trovare le bancarelle degli alimenti, dove comperò degli spiedini yakitori e due alti bicchieri cerati di birra. Sollevando lo sguardo sugli ologrammi, vide che il sangue disegnava un merletto sul petto di una delle due figure. La densa salsa rosso-bruna gocciolò dagli spiedini sopra le sue nocche.

Sette giorni e poi si sarebbe collegato. Se chiudeva gli occhi vedeva la matrice.

Le ombre si deformarono quando gli ologrammi piroettarono nella loro danza.

Poi la paura cominciò a irrigidirgli i muscoli delle spalle. Un gelido rivolo di sudore gli scivolò lungo le costole. L’operazione non aveva funzionato. Era ancora là, ancora carne, nessuna Molly in attesa, con gli occhi calamitati dai coltelli che giravano in tondo, non c’era nessun Armitage ad aspettarlo all’Hilton con i biglietti, un nuovo passaporto e i soldi. Era tutto un sogno, una patetica fantasia… Lacrime roventi gli offuscarono la vista.

Il sangue sprizzò da una giugulare in un fiotto di luce rossa. E adesso la folla si era alzata in piedi, urlando, urlando… mentre una figura si accartocciava al suolo… l’ologramma cominciava a dissolversi, tremolando…

Nella gola, l’urto acido del vomito. Case chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. Poi li riaprì, e vide Linda Lee che gli passava davanti, gli occhi grigi accecati dalla paura. Indossava la tuta francese.

E scomparve, in mezzo alle ombre.

Un puro riflesso insensato: buttò la birra e il pollo e la rincorse. Forse la chiamò per nome, ma non ne sarebbe mai stato sicuro.

Un’immagine residua d’una singola linea rossa sottile come un capello. Il cemento bruciacchiato sotto le suole sottili delle scarpe.

Le scarpe bianche da ginnastica di lei che adesso lampeggiavano vicino alla parete ricurva, e ancora una volta la linea fantasma del laser gli si impresse davanti agli occhi come un marchio infuocato, continuando a pulsare nel suo campo visivo mentre correva.

Qualcuno gli fece lo sgambetto. Il cemento gli lacerò il palmo delle mani.

Rotolò e scalciò, mancando il bersaglio. Un ragazzo magro, con i capelli biondi irti come chiodi, illuminati da dietro da un alone di tutti i colori dell’arcobaleno, si stava chinando su di lui. Sopra il palco una figura si girò, il coltello sollevato, fra gli evviva della folla. Il ragazzo sorrise e tirò fuori qualcosa dalla manica. Un rasoio, profilato in rosso mentre un terzo raggio li oltrepassava lampeggiando, perdendosi nel buio. Case vide il rasoio scendere verso la propria gola come la bacchetta di un rabdomante.

Il volto fu cancellato da una nube ronzante di microscopiche esplosioni. Le freccette di Molly, a venti colpi al secondo. Il ragazzo tossì una volta, convulsamente, poi si accasciò sulle gambe di Case.

Questi s’incamminò verso le bancarelle, in mezzo alle ombre. Guardò in giù, aspettandosi di vedere l’ago color rubino spuntare dal proprio petto. Niente. La trovò. Era riversa ai piedi d’un pilone di cemento, con gli occhi chiusi. C’era un odore di carne cotta. La folla stava cantilenando il nome del vincitore. Un venditore di birra stava pulendo le spine con uno straccio scuro. In qualche modo una scarpetta bianca le si era sfilata, e giaceva accanto alla testa.

Seguì la parete. La curva di cemento. Con le mani in tasca. Continuò a camminare, passando davanti a facce invisibili, gli occhi sollevati verso l’immagine del vincitore sul ring. In un’occasione una faccia europea costellata di cicatrici danzò al bagliore d’un fiammifero, le labbra si contrassero intorno al corto stelo d’una pipa metallica. Un forte odore di hashish. Case continuò a camminare senza sentire niente.

— Case? — I suoi specchi emersero da un’ombra più profonda. — Stai bene?

Qualcosa miagolò e gorgogliò nell’oscurità dietro Molly.

Lui scosse il capo.

— Il match è finito, Case. È ora di ritornare a casa.

Cercò di oltrepassarla, di addentrarsi nel buio dove qualcosa stava morendo. Lei lo fermò appoggiandogli una mano sul petto. — Amici del tuo amico più stretto. Hanno ucciso la tua ragazza per te. Non te la cavi molto bene con gli amici in questa città, vero? Abbiamo un profilo parziale di quel vecchio bastardo da quando abbiamo fatto il tuo, amico. Ammazzerebbe la mamma per una manciata di nuovi yen. Quello là dietro ha detto che!e sono arrivati addosso quando ha cercato di vendere la tua RAM. Meno costoso per loro ucciderla e prendersela. Hanno risparmiato un po’ di soldi… Ho fatto in modo che quello con il laser mi raccontasse tutto. Una pura coincidenza che ci fossimo anche noi, ma dovevo esserne sicura. — Le sue labbra erano dure, irrigidite in una linea sottile.

A Case parve di avere cervello come bloccato. — Chi… chi li ha mandati?

Molly gli passò una borsa chiazzata di sangue con un intenso sentore di zenzero conservato. Lui vide che aveva le mani sporche di sangue rappreso. Là dietro, in mezzo alle ombre, qualcuno emise ancora qualche gorgoglio prima di morire.

Dopo il controllo postoperatorio alla clinica, Molly l’accompagnò fino al porto. Armitage li stava aspettando. Aveva affittato un hovercraft. L’ultima cosa che Case vide di Chiba furono gli scuri profili delle arcologie. Poi la nebbia si chiuse sopra le acque nere e i banchi di rifiuti alla deriva.

PARTE SECONDA

La spedizione per acquisti

3

Casa.

La casa era BAMA, lo Sprawl, l’Asse Metropolitano Boston-Atlanta.

Programmate una mappa in modo che mostri la frequenza degli scambi di dati, ogni mille megabyte un singolo pixel su uno schermo enorme. Manhattan e Atlanta ardono di un bianco compatto. Poi cominciano a pulsare, la velocità del traffico minaccia di sovraccaricare la vostra simulazione. La vostra mappa sta per diventare una nova. Raffreddatela. Aumentate la scala. Ciascun pixel un milione di megabyte. A cento milioni di megabyte al secondo cominciate a distinguere certi isolati al centro di Manhattan, i contorni dei complessi industriali vecchi di secoli che cingono il vecchio cuore di Atlanta…

Case si svegliò da un sogno di aeroporti, di cuoio scuro di Molly che si muoveva davanti a lui negli immensi atrii di Orly, Narita, Schipol… Osservò se stesso che comprava una fiaschetta piatta di plastica piena di vodka danese a un chiosco, un’ora prima dell’alba.

Da qualche parte giù nelle radici di ferrocemento dello Sprawl, un treno stava spingendo una colonna d’aria rancida lungo una galleria. Il treno era silenzioso, planava sui suoi cuscini a induzione, ma l’aria smossa faceva cantare la galleria nella gamma dei subsonici più bassi. La vibrazione raggiunse la stanza dove era steso Case e sollevò la polvere dalle crepe del parquet troppo asciutto.

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