La mano rimase ferma, sospesa a mezz’aria. Le dita presero a tremargli leggermente al pensiero di toccarla davvero, e il kender ritrasse la mano con uno strattone. Continuò a restare lì accovacciato, scrutando Mina e mordendosi il labbro.
Che cosa vedeva quando la guardava? Che cosa la rendeva diversa ai suoi occhi dagli altri mortali? Che cosa la rendeva diversa dai morti che lui vedeva e con cui parlava? Che cosa la rendeva diversa dai morti viventi? Nightshade guardò attentamente la bambina, e di nuovo le lacrime gli sgorgarono agli occhi. Vedeva bellezza, una bellezza inimmaginabile. Una bellezza che eclissava il tramonto più radioso e splendido e al confronto faceva sembrare pallide e banali le stelle. La sua bellezza gli faceva ammutolire per lo sgomento l’anima, per timore che il sussurro più lieve potesse fargli svanire quella visione meravigliosa. Ma non era la bellezza a stringergli il cuore e a rigargli le guance di lacrime.
La sua bellezza era rivestita di bruttezza. Mina era macchiata di sangue, avvolta nel sudario della morte e della distruzione. Malefico, terrificante e orribile, vi era su di lei un drappo funebre.
“È davvero una dea”, disse con un sussurro. “Una dea della luce che ha fatto cose veramente orribili. Io l’ho sempre saputo. Solo che non sapevo di saperlo. Per questo mi sentivo tutto piagnucoloso dentro.”
Nightshade non pensava di poterlo spiegare a Rhys, perché non era sicuro di poterlo spiegare a se stesso. Decise di discuterne con Atta. Aveva scoperto che dire le cose a un cane era molto più facile che parlare con gli esseri umani, principalmente perché Atta non faceva mai domande.
Ma quando si girò per parlare di Mina con Atta, vide che la cagna si era girata sul fianco ed era profondamente addormentata.
Nightshade si accasciò contro la parete accanto a Rhys. Il kender se ne stava lì seduto, meditando su pensieri strabilianti, e ascoltando il respiro sommesso di Rhys, della bambina, di Atta, e del vento, che fischiava sulle dune di sabbia, mentre le onde si frangevano a riva per poi ritrarsi incessantemente…
Nightshade si svegliò di colpo, sobbalzando per via dell’abbaiare di Atta.
Atta era in piedi. Aveva le zampe rigide, il pelo ritto attorno al collo, e fissava attentamente l’ingresso della grotta. Nightshade udiva uno scricchiolio, come di passi pesanti che si avvicinassero nella loro direzione.
Erano vicini e si avvicinavano ulteriormente.
Atta abbaiò di nuovo, aspramente, per avvertimento. Mina si scosse a quel rumore e si tirò il panno sopra la testa, rimettendosi a dormire. Il pesante scricchiolio si interruppe. Sull’ingresso si stagliò un’ombra, che oscurò il sole.
“Monaco! Lo so che sei lì dentro.”
La voce era attutita, eppure Nightshade non ebbe difficoltà a riconoscerla.
“Krell!” guaì. “Rhys, è Krell!”
Nightshade era immune dalla paura come qualsiasi kender, ma era anche dotato di parecchio buonsenso più di quasi tutte quelle creature; un fatto che attribuiva all’avere trascorso molto tempo a conversare con i morti. E così, anziché correre fuori a salutare il cavaliere della morte, come avrebbe fatto qualunque altro kender, Nightshade indietreggiò freneticamente a quattro zampe e urlò di nuovo per chiamare Rhys.
“Sono sveglio”, disse con calma Rhys.
Era in piedi, con l’emmide fra le mani.
“Atta, silenzio. Qui.”
La cagna trotterellò per mettersi accanto a lui. Non abbaiava più, ma continuava a ringhiare.
Krell entrò baldanzoso nella grotta. Non indossava più la maledetta armatura di cavaliere della morte. La sua armatura era quella della morte. L’elmo era un cranio di ariete. Le corna si incurvavano all’indietro dalla testa, e gli occhi di Krell erano visibili dentro le orbite del cranio. La corazza era fatta di osso: la parte superiore del cranio di qualche bestia gigantesca. Le braccia e le gambe erano rivestite di osso, come se lui portasse lo scheletro all’esterno del corpo. Dalle mani e dai gomiti e dalle spalle spuntavano protuberanze ossee, e Krell portava una spada con impugnatura d’osso.
Era uno spettacolo temibile, eppure gli occhi che brillavano da dietro il cranio d’ariete non ardevano del fuoco terrificante dei morti viventi. Quegli occhi erano opachi e inespressivi. Krell non puzzava di morte. Puzzava e basta: sudava sotto il peso dell’armatura. Aveva il respiro affannoso, poiché l’armatura era pesante e lui era stato costretto a percorrere a piedi tutta la strada dal castello a qui.
Nightshade smise di strisciare e si risedette sui talloni.
“Krell, sei vivo!” disse Nightshade, anche se non era sicuro che questo fosse un miglioramento. “Non sei più un cavaliere della morte!”
“Zitto!” ringhiò Krell. Si guardò attorno nella grotta con aria indagatrice, diede un’occhiata priva di interesse alla bambina addormentata, guardò torvo il kender, quindi si volse nuovamente verso Rhys. “Sono venuto a cercare Mina. In nome del mio signore Chemosh, esigo di sapere dove si trovi.”
“Non qui”, disse prontamente Nightshade. “Noi non sappiamo dove sia. Non l’abbiamo vista, vero, Rhys?”
Rhys taceva.
Krell strinse gli occhi. Seppure fiocamente illuminata, la grotta non era molto grande e non vi erano angoli o anfratti dove potesse nascondersi qualcuno.
“Dov’è Mina?” domandò di nuovo Krell.
“Puoi vedere tu stesso”, disse ad alta voce Nightshade. “Non è qui.”
“E allora dov’è?” domandò Krell. Teneva lo sguardo fisso su Rhys. “Ti ricordi l’ultima volta che ci siamo incontrati, monaco? Ti ricordi quello che ti ho fatto? Ti ho spezzato quasi ogni osso della mano. Adesso non sprecherò tempo a spezzare ossa. Ti stacco semplicemente la mano dal polso…”
Krell sguainò la spada e fece un passo verso Rhys.
“Atta, ferma…” cominciò a dire Rhys, ma era troppo tardi.
Atta si scagliò contro Krell e gli affondò i denti nel polpaccio, una parte della gamba lasciata priva di protezione dagli schinieri d’osso.
Krell ululò di dolore e, girandosi sui tacchi, si esaminò la gamba. Stillava sangue da due file di impronte di denti. Krell ringhiò per la collera e cercò di colpire di taglio la cagna con la spada. Mentre Atta abilmente si toglieva di mezzo con un balzo, Rhys bloccò il colpo di Krell col proprio bastone.
Krell sbuffò di derisione e colpì di taglio il bastone con la lama, pensando di spezzarlo. Rhys rapidamente sollevò il bastone e percosse la mano di Krell, facendogli mollare la presa sulla spada. Krell strinse le dita e guardò furioso Rhys, che era indietreggiato di un passo.
Krell si chinò per recuperare la spada.
“Atta, guardia”, disse Rhys.
Atta si accovacciò sopra la spada. Contrasse il labbro all’indietro scoprendo i denti e morse ferocemente la mano di Krell. Questi la ritrasse di scatto, con le dita insanguinate.
“Credo che tu debba andartene, adesso”, disse Rhys. “Riferisci al tuo padrone che la Mina che cerchi non è con me.”
“Sei un bugiardo disgustoso, monaco!” disse Krell. L’alito che fuoriusciva dall’elmo a forma di cranio era putrido. “Tu lo sai dov’è e me lo dirai. Mi scongiurerai di dirmelo! Non mi serve la spada per ucciderti in un’infinità di modi crudeli.”
Rhys non provava paura, come l’aveva provata precedentemente in presenza del cavaliere della morte. Provava disgusto, repulsione.
Krell non era spinto a uccidere da una sacra maledizione. Krell adesso uccideva per motivi futili, meschini. Uccideva perché provava diletto nel dolore e nella paura della sua vittima, e perché gli piaceva reggere fra le mani sudice il potere sulla vita e sulla morte.
“Atta”, disse calmo Rhys, “vai da Nightshade”.
Il kender afferrò la cagna ringhiante e le strinse il muso con la mano.
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