Ursula Le Guin - Le tombe di Atuan

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Le tombe di Atuan Ma Le tombe di Atuan è anche e soprattutto la storia di Tenar, la bambina consacrata alle Potenze tenebrose della Terra, che viene privata di ogni cosa: casa, famiglia, persino del suo nome, per divenire Arha, la sacerdotessa delle tombe di Atuan, destinata a vivere nella solitudine più profonda del suo regno cupo e oscuro fino all’arrivo di un ladro saggio e audace che la libererà dal suo triste fato di sepolta viva.

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— Vorrei chiederti una cosa.

— Chiedi.

— Non voglio andare nelle Terre Interne, a Havnor. Non è il mio posto, nelle grandi città, tra gli estranei. Io non appartengo a nessuna terra. Ho tradito il mio popolo. Non ho un popolo. E ho fatto una cosa terribile. Lasciami sola su un’isola, come furono lasciati i figli del re, su un’isola solitaria dove non ci sia nessuno. Lasciami, e porta l’Anello a Havnor. È tuo, non mio. Non ha nulla in comune con me. Lasciami vivere sola!

Lentamente, gradualmente, e tuttavia sorprendendola una luce albeggiò come una piccola luna nell’oscurità davanti a lei: la luce incantata che appariva al comando di Ged. Brillava sulla sommità del suo bastone, che Ged teneva ritto mentre stava seduto di fronte a lei, a prua. Illuminava la parte inferiore della vela con un chiarore argenteo. Ged la guardava fissa.

— Che male hai fatto, Tenar?

— Ho ordinato di rinchiudere tre uomini in una camera, sotto il trono, perché morissero di fame. Morirono di fame e di sete. Morirono, e furono sepolti nella cripta. Le Pietre Tombali sono crollate sopra le loro fosse. — S’interruppe.

— C’è altro?

— Manan.

— La sua morte pesa sulla mia anima.

— No. È morto perché mi amava e mi era devoto. Credeva di proteggermi. Ha tenuto la spada levata sopra il mio collo. Quando ero piccola, era buono con me… quando piangevo. — S’interruppe di nuovo, perché le lacrime le riempivano gli occhi, eppure non voleva più piangere. Teneva le mani contratte sulle pieghe della nera veste. — Io non sono mai stata buona con lui — disse. — Non voglio andare a Havnor. Non voglio venire con te. Trova un’isola dove non va mai nessuno, fammi sbarcare e lasciami là. Il male fatto dev’essere espiato. Io non sono libera.

La luce dolce, ingrigita dalla nebbia del mare, scintillava tra loro.

— Ascolta, Tenar. Ascoltami. Tu eri il ricettacolo del male. Il male si è riversato fuori. È finito. È sepolto nella propria tomba. Tu non eri fatta per la crudeltà e la tenebra: eri fatta per spandere la luce, come una lampada che irradia e dona il suo chiarore. Ho trovato la lampada spenta: non la lascerò su un’isola deserta, come un oggetto trovato e gettato via. Ti condurrò a Havnor e dirò ai principi di Earthsea: «Guardate! Nel luogo della tenebra ho trovato la luce del suo spirito. Lei ha annientato un male antico. Grazie a lei sono uscito dalla tomba. Grazie a lei ciò che era spezzato si è ricomposto, e dove regnava l’odio regnerà la pace».

— No — replicò Tenar, angosciata. — Non posso. Non è vero!

— E dopo — continuò Ged, pacatamente, — ti condurrò lontano dai principi e dai ricchi signori; perché è vero che quello non è il tuo posto. Sei troppo giovane e troppo saggia. Ti condurrò nella mia terra, a Gont, dove sono nato, dal mio vecchio maestro Ogion. Ormai è vecchio, ed è un grandissimo mago, un uomo dal cuore sereno. Lo chiamano «il Taciturno». Vive in una casetta, sulle grandi scogliere di Re Albi, sopra il mare. Ha qualche capra, e un orticello. In autunno vaga per l’isola, solo, tra le foreste e le montagne e le valli dei fiumi. Un tempo vissi con lui, quando ero più giovane di quanto tu sia ora. Non rimasi a lungo: non ebbi il buonsenso di rimanere. Me ne andai in cerca del male, e infatti lo trovai… Ma tu stai fuggendo dal male, e cerchi la libertà; cerchi il silenzio, per qualche tempo, in attesa di trovare la tua strada. Là troverai bontà e silenzio, Tenar. Là la lampada arderà per un poco lontano dal vento. Lo farai?

La nebbia del mare alitava grigia tra i loro volti. La barca si sollevava leggera sulle onde lunghe. Intorno a loro c’era la notte, sotto di loro il mare.

— Lo farò — disse Tenar, con un lungo sospiro. E poi, dopo una pausa: — Oh, vorrei che fosse presto… che potessimo andare là adesso…

— Non ci vorrà molto, piccola.

— E tu verrai ancora, là?

— Quando potrò, verrò.

La luce si era spenta; era tutto buio, intorno a loro.

Dopo le albe e i tramonti, dopo i giorni di bonaccia e i venti gelidi del loro viaggio invernale, giunsero al mare Interno. Veleggiarono sulle rotte affollate, tra le grandi navi, attraverso lo stretto di Ebavnor, e nella baia serrata nel cuore di Havnor, e attraverso la baia giunsero al Grande Porto di Havnor. Videro le torri bianche, e tutta la città, candida e radiosa nella neve. I tetti dei ponti e le rosse tegole delle case erano coperti di neve, e le sartie delle cento navi attraccate nel porto scintillavano di ghiaccio nel sole invernale. La notizia del loro arrivo li aveva preceduti, perché la rossa vela rattoppata della Vistacuta era ben nota in quei mari: una grande folla si era radunata sulle banchine innevate, e vessilli colorati garrivano sopra la gente nel freddo vento luminoso.

Tenar sedeva a poppa, eretta, nel lacero mantello nero. Guardò l’anello che le cingeva il polso, e poi la riva affollata e multicolore, e i palazzi e le altissime torri. Alzò la mano destra, e il sole lampeggiò sull’argento dell’anello. Si levò un’acclamazione, fievole e gioiosa nel vento, sopra l’acqua inquieta. Ged guidò la barca verso il molo. Cento mani si protesero ad afferrare la corda che lui lanciò verso la bitta. Balzò sulla banchina e si voltò, tendendo la mano a Tenar. — Vieni! — disse sorridendo, e lei si alzò e salì. Grave in volto, camminò al suo fianco per le bianche strade di Havnor, tenendogli la mano, come una bimba che ritorna a casa.

FINE
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