Ursula Le Guin - La spiaggia più lontana

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La pace che sembrava tornata nel mondo fatato di Earthsea dopo la riconquista da parte di Ged della metà mancante dell’anello magico di Erreth-Akbe nei labirinti oscuri delle tombe di Atuan, è di nuovo in pericolo: Arren, il giovane principe di Enlad, la più antica casata di Earthsea, viene personalmente all’isola di Roke per avvertire l’Arcimago Ged, ormai maturo e famoso in tutto il mondo, che la magia va scomparendo in tutte le terre del Nord. Nessuno sa il perché, ma gli antichi incantesimi non funzionano più ed i maghi vanno perdendo la conoscenza della “lingua antica” che era alla base della loro forza.
Così, per scoprire da dove provenga questa minaccia che allarga con tanta rapidità la sua sfera d’influenza, Ged ed Arren, l’uomo saggio ed il fanciullo inesperto, partono per un viaggio che sarà una vera e propria odissea: un lungo vagabondare attraverso le isolette e le genti di Earthsea che li porterà ad affrontare pericoli di tutti i generi (briganti, mercanti di schiavi, traversate avventurose in mari burrascosi), fino a giungere all’ultima spiaggia, a Selidor, l’isola all’estremità del mondo, dove risiedono i draghi, ed ancora più oltre, in un luogo desolato da cui nessuno fa mai ritorno.
La spiaggia più lontana conclude il ciclo di Ged, un ciclo di rara bellezza letteraria e di grande coerenza interna, che accoppia ad una poetica narrazione di eroiche gesta, un’allegorica riflessione sull’equilibrio cosmico e sull’essenza della vita.

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Le darsene coperte spiccavano nere sopra l’acqua nera: e all’improvviso ne venne un suono cupo e cavernoso, un tonfo tonante, ripetuta tre volte. Arren si sentì rizzare i capelli in testa. Una lunga ombra scivolò silenziosa sull’acqua. Era una barca, che avanzava verso il pontile senza far rumore. Arren scese di corsa i gradini fino al molo e saltò a bordo.

— Prendi il timone — disse l’arcimago, una figura agile e buia a prora. — E tieni salda la barca, mentre io alzo la vela.

Erano già fuori, sull’acqua, e la vela si apriva dall’albero come un’ala bianca, cogliendo la luce via via più viva. — Un vento dell’ovest per risparmiarci la fatica di uscire a remi dalla baia: è il dono di commiato del Maestro della Chiave dei Venti, senza dubbio. Sta’ attento, ragazzo: la barca è leggera, e vira facilmente. Così. Un vento dell’ovest e un’aurora serena per il Giorno dell’Equilibrio di primavera.

— Questa barca è la famosa Vistacuta ? — Arren aveva sentito parlare della barca dell’arcimago, in canti e leggende.

— Sì — rispose l’altro, trafficando con le sartie. La barca sgroppava e virava, mentre il vento si rinforzava; Arren strinse i denti e cercò di tenerla in rotta.

— Vira facilmente, mio signore, ma sembra animata da una volontà propria.

L’arcimago rise. — Lasciala fare: anche lei è saggia. Ascolta, Arren — disse, e s’interruppe, inginocchiandosi e fissando Arren. — Adesso io non sono un signore, e tu non sei un principe. Io sono un mercante, di nome Falco, e tu sei mio nipote, di nome Arren, e viaggi con me per imparare a navigare; e veniamo da Enlad. Da quale città? Una piuttosto grande, nell’eventualità che incontriamo un concittadino.

— Temere, sulla costa meridionale? I suoi abitanti commerciano in tutti gli stretti.

L’arcimago annuì.

— Ma — disse cautamente Arren, — tu non hai l’accento di Enlad.

— Lo so. Ho l’accento di Gont — replicò il suo compagno; e rise, alzando gli occhi verso l’oriente che si rischiarava. — Ma credo di poter prendere a prestito da te ciò che mi serve. Dunque, noi veniamo da Temere, con la nostra barca, Delfino , e io non sono un signore né un mago né Sparviero, ma… come mi chiamo?

— Falco, mio signore.

Poi Arren si morse la lingua.

— Pratica, nipote — disse l’arcimago. — Ci vuole pratica. Tu non sei mai stato altro che un principe. Io, invece, sono stato molte cose, e per ultima, forse la meno importante, anche arcimago… Andiamo a sud, a cercare pietre emmel, quelle cose azzurre da cui si ricavano amuleti. So che in Enlad le pagano bene. Ne ricavano talismani contro i reumatismi, le slogature, i torcicollo e gli inceppamenti della lingua.

Dopo un istante Arren rise; e quando alzò la testa, la barca si sollevò su un’onda lunga e lui vide l’orlo del sole contro l’orlo dell’oceano: un bagliore dorato e improvviso, davanti a loro.

Sparviero stava ritto, con una mano sull’albero, perché la piccola barca balzava sulle onde convulse, e salmodiò rivolgendosi all’aurora dell’equinozio di primavera. Arren non conosceva la Vecchia Lingua, la lingua dei maghi e dei draghi: ma udiva lodi ed esultanza in quelle parole, che avevano un ritmo grandioso come quello delle maree o dell’equilibrio dei giorni e delle notti in eterna successione. I gabbiani gridavano nel vento, e le spiagge della baia di Thwil scivolavano via a destra e a sinistra: si addentrarono sulle lunghe onde luminose del mare Interno.

Da Roke a Città Hort non è un gran tragitto; ma trascorsero tre notti in mare. L’arcimago aveva dimostrato una gran fretta di partire, ma adesso era più che paziente. I venti divennero contrari appena loro si allontanarono dalla cerchia di clima incantato che attorniava Roke; ma lui non evocò un vento magico nella loro vela, come avrebbe fatto qualunque incantatore; invece, per ore e ore, insegnò ad Arren come guidare la barca in un vento avverso e costante, nel mare irto di scogli a est di Issel. La seconda notte cadde la fredda e sferzante pioggia di marzo, ma lui non recitò incantesimi per tenerla lontana. La notte seguente, mentre stavano all’esterno dell’entrata di Porto Hort, in una calma oscurità fredda e nebbiosa, Arren rifletté e notò che l’arcimago, nel breve tempo trascorso da quando l’aveva incontrato, non aveva compiuto nessuna magia.

Tuttavia era un marinaio impareggiabile. In quei tre giorni di navigazione insieme a lui, Arren aveva imparato di più che nei dieci anni di gare e di svaghi sulla baia di Berila. E mago e marinaio, in fondo, non sono poi tanto diversi: entrambi operano con i poteri del cielo e del mare, e usano i grandi venti per avvicinare ciò che è remoto. Arcimago, o Falco il mercante del mare: era più o meno la stessa cosa.

Era un uomo piuttosto taciturno, sebbene si mostrasse sempre cordiale e bonario. Le goffaggini di Arren non l’irritavano; era cameratesco, e sarebbe stato impossibile immaginare un compagno migliore, pensava Arren. Ma l’arcimago sprofondava nei suoi pensieri, e taceva per ore e ore, e poi, quando parlava, aveva una certa asprezza nella voce e guardava Arren come se non lo vedesse. Questo non smorzava l’affetto che il ragazzo provava per lui, ma forse ne sminuiva un po’ la simpatia: gli incuteva un certo timore. Forse anche Sparviero se ne rendeva conto, perché in quella notte di nebbia, al largo delle rive di Wathort, cominciò a parlare con Arren di se stesso, a frasi spezzate. — Non voglio andare tra gli uomini, domani — disse. — Ho finto di essere libero… Ho finto di credere che nel mondo non ci sia nulla d’insolito; che io non sono l’arcimago, e neppure un incantatore. Che sono Falco di Temere, senza responsabilità né privilegi, e che non devo niente a nessuno… — S’interruppe; dopo una lunga pausa, continuò: — Cerca di scegliere con cura, Arren, quando è necessario compiere le grandi scelte. Quando ero giovane, dovetti scegliere tra la vita dell’essere e la vita del fare. E mi avventai su quest’ultima, come una trota su una mosca. Ma ogni azione che compi, ogni atto, ti lega a sé e alle sue conseguenze, e ti costringe ad agire e ad agire ancora. E allora, solo raramente incontri la paura, un tempo come questo, tra un’azione e l’altra, quando puoi fermarti e limitarti a essere. O a domandarti chi sei, dopotutto.

Come poteva un uomo come quello, si chiese Arren, avere dubbi su chi era e cos’era? Aveva pensato che dubbi simili fossero riservati ai giovani che ancora non avevano fatto nulla.

La barca ondeggiava nella grande oscurità fresca.

— Per questo mi piace il mare — disse nel buio la voce di Sparviero.

Arren lo comprendeva; ma i suoi pensieri correvano lontano, com’era sempre avvenuto in quei tre giorni e in quelle tre notti, verso la loro ricerca, lo scopo del loro viaggio. E poiché, finalmente, il suo compagno sembrava disposto a parlare, chiese: — Credi che a Città Hort troveremo ciò che cerchiamo?

Sparviero scrollò la testa, forse per rispondere di no o forse per indicare che non lo sapeva.

— Non potrebbe essere una specie di pestilenza, un’epidemia, che passa di terra in terra devastando le messi e gli armenti e gli spiriti degli uomini?

— Una pestilenza è un movimento del grande equilibrio: questo è diverso. Ha in sé il lezzo del male. Forse ne soffriremo, quando l’equilibrio delle cose si ristabilirà; ma non perdiamo la speranza, non rinunciamo all’arte e non dimentichiamo le parole della Creazione. La natura non è innaturale. Questo non è un assestamento dell’equilibrio, bensì una perturbazione. C’è una sola specie di esseri che può farlo.

— Un uomo? — chiese incerto Arren.

— Noi uomini.

— In che modo?

— Con uno smisurato desiderio di vita.

— Di vita? Ma cosa c’è di male nel desiderio di vivere?

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