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Ursula Le Guin: L’isola del drago

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Ursula Le Guin L’isola del drago

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L’Arcipelago di Earthsea è una terra lontana dove la magia è ancora potente e capace di sottili e misteriosi incantesimi che legano (o separano) gli esseri umani e dove, talvolta, giungono i draghi per ricordare a tutti che, nella notte dei tempi, non c’era distinzione tra uomo e drago. E a Gont, una delle isole di Earthsea, vive Tenar, una donna che pur essendo stata l’allieva prediletta del potente Arcimago Ogion, ha sorprendentemente rinunciato ai Poteri della magia per condurre una vita tranquilla accanto all’uomo che ama. Ma quel destino che Tenar ha rifiutato non ha mai cessato di albergare nei ricordi, nei pensieri e nei gesti della donna, e ora ritorna a lei sotto forme diverse e inquietanti: una bambina martoriata nel corpo e nello spirito (ma dotata di immani capacità soprannaturali), un vecchio amico che ha smarrito i Poteri dopo un viaggio nella terra delle Tenebre, l’antico maestro che la chiama per confidarle un segreto che solo lei può comprendere. Tornare sul sentiero che pensava abbandonato per sempre non sarà facile per Tenar, eppure solo lei conosce quel luogo dove — fra streghe, draghi, premonizioni e sortilegi — si deciderà l’esito della lotta tra il giovane e coraggioso re di Gont e le forze delle Tenebre che hanno scagliato contro l’isola una maledizione letale…

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Tutte la fissarono. Tenar cercò di dire «il drago», ma si accorse di non riuscirci. Le sue labbra e la sua lingua non volevano articolare quella parola. Ma un nome si formò da solo, e usò le sue labbra per pronunciarsi. «Kalessin», disse.

Therru la fissava. Dalla bambina parve irradiarsi un’onda di calore, come se avesse la febbre. Tenar non disse niente, ma mosse le labbra come per ripetere il nome e il calore tornò a bruciare attorno a lei.

«Trucchi!» esclamò Muschio. «Adesso che il nostro mago è morto, qui arriverà ogni sorta di imbroglioni!»

«Io ho viaggiato da Atuan a Havnor e da Havnor a Gont, con Sparviero, su una barca scoperta», disse Tenar, seccamente. «L’hai visto anche tu quando mi ha portata qui, Muschio. Non era Arcimago, allora. Ma era lo stesso uomo. Hai forse mai visto altre cicatrici come le sue?»

La vecchia rimase in silenzio, pensando a una risposta. Lanciò un’occhiata a Therru. «No», ammise. «Ma…»

«Mi credi incapace di riconoscerlo?»

Muschio fece per parlare, aggrottò la fronte, si strofinò un pollice sull’altro, si guardò le mani. «Ci sono tante cose malvagie, nel mondo», disse. «Cose che prendono la forma e il corpo di un uomo, ma la sua anima non c’è più… è stata divorata…»

«Il gebbeth

Muschio trasalì nel sentir pronunciare apertamente la parola. Annui. «Dicono che il mago Sparviero era già stato qui, prima che portasse te. E che si era allontanato perché con lui c’era una creatura delle Tenebre… che lo seguiva. Forse lo segue ancora. Forse…»

«Il drago che l’ha portato qui», disse Tenar, «l’ha chiamato con il suo vero nome. E io conosco quel nome.» La sua voce lasciava trasparire la collera per l’ostinazione della strega.

Muschio non replicò. Il suo silenzio era più eloquente di qualsiasi parola.

«Forse l’ombra su di lui è la sua morte», suggerì Tenar. «Forse sta per morire. Non lo so. Se Ogion…»

Al pensiero di Ogion la donna scoppiò di nuovo in pianto, pensando che Ged era arrivato troppo tardi. Frenando le lacrime, andò a prendere nuova legna per il fuoco. Diede a Therru il bricco da riempire, e nell’impartirle l’ordine l’accarezzò sul viso. Le cicatrici rosse e frastagliate erano calde, ma non di febbre. Tenar si inginocchiò per accendere il fuoco. Qualcuno, in quella bella casa — una strega, un’invalida, una vedova e una giovane un po’ debole di mente -, doveva occuparsi di fare le faccende, invece di spaventare la bambina con piagnistei. Ma adesso che il drago era andato via, che cosa poteva ancora arrivare, tranne la morte?

CONVALESCENZA

Sembrava morto, ma non lo era. Dove era stato? Che cosa aveva passato? Quella sera, alla luce del fuoco, Tenar gli tolse i vestiti sporchi, lisi e intrisi di sudore. Lo lavò e lo adagiò, senza niente addosso, sulle lenzuola di lino e gli stese sopra una coperta di lana di capra, morbida e calda. Anche se Sparviero era un uomo minuto e di bassa statura, un tempo era stato robusto e muscoloso; ora, invece, sembrava che qualcosa l’avesse consumato fino all’osso, rendendolo smunto ed emaciato. Anche le cicatrici sulla spalla e sulla parte sinistra del viso, dalla tempia alla mascella, erano ormai pallide, quasi argentee. E i capelli ora erano grigi.

Sono stanca di lutti, pensò Tenar. Stanca di pianti, stanca di dolore. Non voglio piangere per lui! Non è arrivato da me a cavallo di un drago?

Una volta avrei voluto ucciderlo, ricordò poi. Adesso invece cercherò di farlo sopravvivere, se potrò. Fissò l’uomo con aria di sfida, senza pietà.

«Chi di noi ha salvato l’altro dal Labirinto, Ged?»

Ma l’uomo non poteva ascoltarla e, immobile, continuò a dormire. Anche Tenar era molto stanca. Fece il bagno nell’acqua che aveva riscaldato per lavarlo, e scivolò nel letto accanto a quel piccolo, caldo silenzio di seta che era il sonno di Therru. Dormì, e il sonno le spalancò un ampio spazio ventoso, venato di rosa e d’oro. Volava e chiamava: «Kalessin!» E una voce, dagli abissi di luce, le rispondeva.

Quando Tenar si svegliò, gli uccelli cinguettavano nei campi e sul tetto. Nel rizzarsi a sedere, la donna vide la luce del mattino attraverso il vetro irregolare della finestra che dava a ponente. C’era qualcosa in lei, un seme o un barlume, troppo piccolo per essere visto o per poterlo immaginare, ma nuovo. Therru era ancora addormentata. Tenar rimase seduta accanto a lei, con lo sguardo fisso alla finestra, alle nubi e alla luce del sole, e pensò a sua figlia Melina, cercando di ricordarsela quando era appena nata. Solo una rapida immagine, che svanì quando cercò di definirne i contorni: il corpicino grassoccio che tremolava per una risata, i capelli sottili e impalpabili… E il secondo figlio, che era stato chiamato Scintilla per gioco, perché era nato da Selce. Tenar non conosceva il suo nome vero. Al contrario di Melina — che era sempre stata sanissima — Scintilla era un bambino debole e malaticcio. Nato in anticipo, e molto piccolo alla nascita, era quasi morto di difterite all’età di due mesi e in seguito, per due anni, allevarlo era stato come prendersi cura di un passerotto implume: non si sapeva mai se l’indomani mattina sarebbe stato ancora vivo. Ma aveva tenuto duro, la piccola scintilla non si era lasciata spegnere. E, crescendo, era diventato un giovane magro ma robusto, attivissimo e irruento; assolutamente inutile nella fattoria — poiché non aveva pazienza con gli animali, con le piante e con le persone -, abituato a usare le parole solo per le proprie esigenze, mai per il piacere di parlare o per il desiderio di scambiarsi amore e conoscenze.

Ogion era passato dalla fattoria, durante uno dei suoi vagabondaggi, quando Melina aveva tredici anni e Scintilla undici. In quell’occasione, il mago aveva dato il vero nome a Melina e l’aveva fatto alle fonti del Kaheda in cima alla valle; la giovinetta bellissima si era immersa nell’acqua dai riflessi verdi, e il mago le aveva dato il suo vero nome, Hayohe. Poi Ogion era rimasto alla Fattoria delle Querce per un giorno o due e aveva chiesto al ragazzo se volesse accompagnarlo a fare un giro nei boschi. Scintilla si era limitato a scuotere la testa. «Che cosa faresti, se potessi?» aveva chiesto allora il mago, e il ragazzo gli aveva detto quel che non aveva mai rivelato ai genitori: «Andrei per mare». Così, dopo che Faggio gli aveva dato il suo vero nome, tre anni più tardi, Scintilla si era imbarcato come marinaio su un mercantile che faceva rotta da Valmouth a Oranéa e a Nord Havnor. Di tanto in tanto tornava alla fattoria, ma non molto spesso, e non ci rimaneva a lungo, anche se alla morte del padre la proprietà sarebbe passata a lui. Aveva la pelle chiara come quella di Tenar, ma era diventato alto come Selce, con un viso affilato. Non aveva mai detto ai genitori il suo nome vero e, forse, non lo aveva mai rivelato a nessuno. Tenar non lo vedeva da tre anni. Era possibile che non gli fosse mai giunta notizia della morte del padre. Magari aveva fatto naufragio ed era morto, ma Tenar pensava di no. Qualsiasi cosa gli fosse accaduta, avrebbe saputo condurre la sua scintilla di vita al di sopra delle acque e attraverso la tempesta.

Ed era ciò che Tenar provava in quel momento: la sensazione di una scintilla di vita, un fremito simile a quello che il corpo prova quando sente di avere in sé il nucleo di una nuova esistenza; un cambiamento, qualcosa di nuovo. Ma lei non intendeva chiedersi che cos’era. Erano cose che non si chiedevano, cosi come non si chiedeva il nome vero. O ti veniva dato, o continuavi a ignorarlo.

Tenar si alzò e si vestì. Anche se era ancora presto, faceva già caldo, quindi decise di non accendere il fuoco. Si sedette sulla soglia per bere una tazza di latte e osservò l’ombra del Monte di Gont ritirarsi progressivamente dal mare. Non c’era molta aria, per una rupe come quella, sempre spazzata dai venti, e la brezza aveva qualcosa di estivo, di ricco e di morbido, che profumava di erba. C’era una particolare dolcezza nell’aria, un cambiamento.

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