Ursula Le Guin - L’isola del drago

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L’Arcipelago di Earthsea è una terra lontana dove la magia è ancora potente e capace di sottili e misteriosi incantesimi che legano (o separano) gli esseri umani e dove, talvolta, giungono i draghi per ricordare a tutti che, nella notte dei tempi, non c’era distinzione tra uomo e drago. E a Gont, una delle isole di Earthsea, vive Tenar, una donna che pur essendo stata l’allieva prediletta del potente Arcimago Ogion, ha sorprendentemente rinunciato ai Poteri della magia per condurre una vita tranquilla accanto all’uomo che ama. Ma quel destino che Tenar ha rifiutato non ha mai cessato di albergare nei ricordi, nei pensieri e nei gesti della donna, e ora ritorna a lei sotto forme diverse e inquietanti: una bambina martoriata nel corpo e nello spirito (ma dotata di immani capacità soprannaturali), un vecchio amico che ha smarrito i Poteri dopo un viaggio nella terra delle Tenebre, l’antico maestro che la chiama per confidarle un segreto che solo lei può comprendere. Tornare sul sentiero che pensava abbandonato per sempre non sarà facile per Tenar, eppure solo lei conosce quel luogo dove — fra streghe, draghi, premonizioni e sortilegi — si deciderà l’esito della lotta tra il giovane e coraggioso re di Gont e le forze delle Tenebre che hanno scagliato contro l’isola una maledizione letale…

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«Perché?» chiese Tenar.

Presa alla sprovvista, Muschio rispose semplicemente: «Be’, dove lo trovi, un uomo disposto a sposare una strega?» E poi, muovendo di lato la mascella come fa la pecora che sposta il suo bolo: «E dove la trovi, una strega disposta a sposarsi?»

Continuarono a spezzare i giunchi.

«Che cosa c’è che non va negli uomini?» chiese Tenar, cautamente.

E con altrettanta cautela, abbassando la voce, Muschio rispose: «Non saprei, cara. Me lo sono chiesto molte volte. La migliore risposta che ho trovato potrebbe essere questa: un uomo sta dentro la sua pelle come una noce nel suo guscio». Sollevò la mano e gliela mostrò, curvando le dita lunghe e bagnate come se tenesse una noce fra il pollice e l’indice. «Il guscio è duro e robusto, ed è pieno di lui. Pieno della sua polpa di uomo, della sua personalità. E nient’altro. Dentro il guscio c’è solo lui e nient’altro.»

Tenar rifletté su quelle parole e infine chiese: «Ma se è un mago…?»

«Allora, dentro c’è solo il suo Potere. Il suo Potere è lui, devi capire. Per un mago, è così. Quando il suo Potere sparisce, sparisce anche lui. Resta un guscio vuoto.» Fece finta di schiacciare la noce immaginaria e di gettare via i pezzi. «Non resta niente.»

«E per una donna, allora?»

«Oh, be’, cara, per una donna è completamente diverso. Chi può dire dove inizia e dove finisce una donna? Ascolta, io ho radici più profonde di quest’isola. Più profonde del mare, più antiche della creazione della terraferma. Io risalgo fino alle Tenebre.» Gli occhi arrossati della strega brillavano in modo strano, e la sua voce vibrava come uno strumento musicale. «Io risalgo alle Tenebre! Esistevo prima che esistesse la luna. Nessuno sa che cosa sono, nessuno lo può dire, nessuno sa che cosa sia una donna, una donna di Potere, né il Potere delle donne, che è più profondo delle radici degli alberi, più profondo delle radici delle isole, più antico della Creazione, più antico della luna. Chi oserà mai rivolgere domande alle Tenebre? Chi oserà mai chiedere alle Tenebre il loro nome?»

La vecchia dondolava la testa e parlava come se salmodiasse una formula magica, persa nel suo incantesimo; ma Tenar rizzò la schiena e con l’unghia tagliò un altro giunco.

«Lo farò io», disse.

Spezzò un altro giunco.

«Sono vissuta abbastanza a lungo nelle Tenebre», aggiunse.

Tenar si alzò: come faceva di tanto in tanto si diresse verso casa per controllare se Sparviero dormiva ancora. Una volta tornata a sedersi vicino a Muschio, preferì non riprendere il discorso di prima, perché la vecchia aveva l’aria imbronciata e severa. Disse, invece: «Questa mattina, quando mi sono alzata, mi è sembrato che si fosse levato un vento diverso dal solito. Che ci fosse stato un cambiamento. Forse è solo il tempo. Tu l’hai sentito?»

Ma la strega non volle pronunciarsi. «I venti che soffiano qui sul Precipizio sono tanti: alcuni sono buoni, altri maligni. Alcuni portano le nubi e altri il bel tempo, e alcuni portano notizie a coloro che sanno ascoltarle, ma chi non le sa ascoltare non può conoscerle. Che cosa posso sapere io, una vecchia che non ha mai conosciuto gli insegnamenti dei maghi, che non ha mai studiato sui libri? Tutte le mie conoscenze vengono dalla terra, dalla terra buia e tenebrosa. Loro la tengono sotto i piedi, pieni del loro orgoglio. Gli orgogliosi signori maghi. Che cosa può sapere una vecchia strega?»

Doveva essere terribile, si disse Tenar, avere quella donna per nemica. Ed era difficile anche averla per amica.

«Zia», le disse, raccogliendo uno stelo di giunco, «io sono cresciuta fra donne. Solo donne. Nella terra di Karg, a oriente, lontano da qui, ad Atuan. Sono stata portata via dalla mia famiglia quando ero ancora piccola, per divenire una sacerdotessa in un luogo del deserto. Non so come si chiami; noi, nella nostra lingua, lo chiamavamo solo così, ‘il Posto’. L’unico posto che conoscessi. C’erano dei soldati di guardia, all’esterno delle mura, ma non potevano entrare. E noi non potevamo uscire dalle mura. Solo in gruppo, tutte donne e ragazze, con gli eunuchi a custodirci, per allontanare gli uomini.»

«Chi sono, quelli di cui parli?» chiese la strega.

«Gli eunuchi, intendi dire?» Senza accorgersene, Tenar aveva usato la parola nella lingua di Karg. «Castrati», disse.

La strega la fissò per un istante, poi esclamò: « Tsekh! », e fece uno scongiuro. Si morse il labbro, talmente sorpresa da scordarsi dell’irritazione di poco prima.

«Uno di loro è stato come una madre, per me, laggiù… Ma capisci, Zia, io non avevo mai visto un uomo: quando ho visto il primo, ero già donna fatta. Ho visto solo altre donne. Eppure non sapevo che cosa fossero le donne, perché conoscevo solo quelle. Come gli uomini che vivono solo con altri uomini, i marinai e i soldati, e i maghi di Roke… possono dire di sapere veramente che cos’è un uomo? No, secondo me, perché non parlano mai con una donna.»

«Li pigliano e gli fanno come ai maschi delle pecore e delle capre?» chiedeva intanto la strega. «Con il coltello del castratore?»

Il gusto dell’orrore e del macabro, e forse anche una sorta di spirito vendicativo contro gli uomini, aveva avuto il sopravvento sia sulla sua collera, sia sulla ragione. Adesso, l’unico argomento che interessasse a Muschio era quello degli eunuchi.

Purtroppo, Tenar non poteva dirle molto. Comprese di non avere mai dato gran peso alla cosa. Quando era ad Atuan, da bambina, sapeva che c’erano degli uomini evirati; uno di loro le aveva voluto bene come a una figlia, e lei aveva ricambiato l’affetto; poi, Tenar l’aveva ucciso per fuggire. Di lì era poi giunta nell’Arcipelago, dove non c’erano eunuchi, e non aveva più pensato a loro, li aveva lasciati affondare nelle Tenebre come il corpo di Manan.

«Penso di sì», disse, per venire incontro a Muschio e alla sua sete di particolari. «Prendono dei ragazzi ancora giovani, e…» S’interruppe. Smise anche di lavorare.

«Come Therru», riprese, dopo una lunga pausa. «A che cosa serve un bambino? Per usarlo. Per violentarlo, per castrarlo… Ascolta, Muschio. Quando vivevo nel luogo delle Tenebre, era quel che facevano laggiù. E quando sono venuta qui, ho pensato di essermi affacciata alla luce. Avevo imparato le parole vere. E avevo il mio uomo, avevo messo al mondo dei figli, vivevo tranquilla. Alla luce del sole. E proprio alla luce del sole hanno fatto quello… alla bambina. Sul prato, vicino al fiume. Il fiume che nasce dalla sorgente dove Ogion ha dato il nome a mia figlia. Alla luce del sole. Io cerco ancora di scoprire dove posso vivere, Muschio. Capisci quello che intendo dire?»

«Be’…» disse la donna più anziana; e, dopo qualche istante, aggiunse: «Cara, ci sono abbastanza dolori al mondo senza andare a cercarli». Poi, nel vedere che a Tenar tremavano le mani e che non riusciva a spezzare un giunco particolarmente robusto, ripeté: «Attenta a non tagliarti un dito, cara».

Dovettero attendere fino all’indomani perché Ged riprendesse i sensi. Muschio, che era un’infermiera molto brava, anche se terribilmente sporca, riuscì a fargli inghiottire un po’ di brodo. «Chissà da quanto tempo non mangia», disse, «ed è arso dalla sete. Dovunque sia stato, laggiù non devono né mangiare né bere molto.» E, dopo avergli dato un’altra occhiata: «Ma ormai è troppo tardi, secondo me. Si indeboliscono, sai, e non riescono neppure a bere, anche se ne hanno bisogno. Ho visto tanti uomini forti morire così. In pochi giorni, ridotti all’ombra di se stessi».

Tuttavia, con pazienza, riuscì a dargli qualche cucchiaio del suo brodo di carne e verdura. «Adesso vedremo», disse. «Ma è troppo tardi, secondo me. Sta scivolando via.» Lo disse senza rimpianto, forse con soddisfazione. Quell’uomo non era niente per lei; un morto, invece, era un avvenimento. Forse le avrebbero lasciato seppellire quel mago. Quando era morto quello vecchio non glielo avevano permesso.

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