Morgon aprì i pugni, li richiuse. Il respiro gli usciva come un rantolo e dovette trattenerlo, calmarsi, per poter fare un’ultima domanda: — Che cosa vuoi da me?
— Rifletti, Morgon. — La calma voce di lui si fece bassa, quasi inudibile, gentile. — Tu hai preso la forma del vento, e del cuore selvaggio di Osterland. Tu hai visto mio figlio, morto, sepolto nel Monte Isig. Dalle sue mani hai preso le stelle del tuo destino. E con tutto il potere e la rabbia che avevi sei riuscito a farti strada fin qui, per conoscermi. Tu sei il mio Erede della terra.
Morgon non riuscì a parlare. Stava afferrando il braccio del Supremo come se temesse che il pavimento della torre svanisse sotto di lui. Poi udì la propria voce, atona, lontana, ansimare: — Il tuo Erede!
— Tu sei il Portatore di Stelle, l’erede profetizzato dai morti di Isig, colui che io ho atteso per secoli e oltre ogni speranza. Da dove pensi che sia venuto il potere che ora hai sulle leggi della terra?
— Io non… non ci avevo pensato. — La voce gli divenne un sussurro, mentre i suoi pensieri tornavano a Hed. — Tu mi stai dando… tu mi stai restituendo Hed.
— Ciò che ti darò è l’intero reame, quando morirò. Sembra che tu lo ami, con tutti i suoi spettri, i contadini testardi e i suoi venti mortali… — Tacque, sorpreso dal singhiozzo di Morgon. Il volto di lui s’era rigato di lacrime, mentre gli enigmi scioglievano il loro groviglio, nodo per nodo, intorno al cuore della torre. Abbassò le braccia, cadde in ginocchio ai piedi del Supremo e chinò il capo, con le mani segnate dalle cicatrici chiuse contro il petto. Non riuscì a dir niente, non sapeva neppure quale lingua di luce e di tenebra il falco, che aveva così governato la sua vita, avrebbe voluto udire. Storditamente pensò ancora a Hed, e gli parve di avere l’isola stretta fra le braccia, sul suo cuore. Poi il Supremo s’inginocchiò di fronte a lui e gli sollevò il volto prendendolo fra le mani.
I suoi occhi erano quelli dell’arpista, scuri come la notte, e non più colmi di silenzio ma di dolore.
— Morgon — mormorò. — Vorrei che tu non fossi una persona per cui ho avuto tanto affetto.
Gli passò un braccio intorno alle spalle, tenendolo a sé con fierezza come aveva fatto il falco coi suoi artigli. Poi tacque, finché Morgon non ebbe l’impressione che il suo cuore, e le pareti della torre, e la notte stellata al di fuori fossero fatti non di sangue o di pietra o di aria ma del respiro dell’arpista. S’accorse di avere ancora le lacrime agli occhi, e di temere che toccando la figura che aveva accanto essa cambiasse forma un’altra volta. Qualcosa di duro e acuminato, luttuoso, gli chiudeva la gola e i polmoni, ma non si trattava di lutto. Vincendo quella sofferenza, sentendosi come se il dolore del Supremo fosse la sola cosa che riusciva a comprendere, disse: — Cos’è accaduto a tuo figlio?
— La guerra lo uccise. Da lui venne strappato ogni potere. Non poteva più vivere… fu lui a darti la spada stellata.
— E tu… da allora sei rimasto solo. Senza un erede. L’unica cosa che avevi era una promessa.
— Sì. Ho vissuto in segreto per migliaia d’anni, senza niente in cui sperare salvo una promessa. Il sogno di un bambino morto. E poi tu sei venuto. Morgon, io non ho fatto niente di ciò che avrei dovuto fare per tenerti in vita. Niente. La mia sola speranza eri tu.
— Mi stai dando anche le desolazioni del nord. Io le ho amate. Le amo. E le nebbie di Herun, i vesta, l’immenso entroterra… ebbi paura, quando mi accorsi come amavo tutto questo. Ogni forma mi attirava, e non potevo impedirmi di volere… — La sofferenza gli tormentava il petto come una lama. Trasse un respiro rauco, faticoso. — Tutto ciò che volevo da te era la verità. Io non sapevo… non immaginavo che mi avresti dato tutto ciò che ho sempre amato.
Non riuscì a dir altro. I singhiozzi lo scuotevano tanto che gli parve di non poter più sopportare la sua forma. Ma il Supremo gli tenne le mani sulle spalle e gli parlò, placandolo pian piano. Ancora incapace di parlare Morgon restò immobile ad ascoltare il vento, che portava sulla torre raffiche di pioggia. La sua testa era china su una spalla del Supremo. Per un poco mantenne il silenzio, e quando rialzò gli occhi la sua voce stanca suonò più calma:
— Non potevo immaginarlo. Tu non mi hai lasciato guardare più lontano della mia rabbia.
— Non osavo permettere che tu vedessi troppo. La mia vita era in grave pericolo, e tu eri molto prezioso per me. Ho cercato di salvartela come ho potuto, usando me stesso, usando la tua ignoranza, perfino il tuo odio. Non sapevo se mi avresti perdonato, ma tutte le speranze del reame erano riposte in te, e volevo che tu fossi potente, confuso, sempre alla mia ricerca e tuttavia senza trovarmi mai, benché ti fossi continuamente vicino…
— Io dissi… dissi a Raederle, mentre tornavamo dal nord, che con te mi aspettava una gara di enigmi che avrei potuto perdere.
— No. A Herun tu hai visto in me la verità che cercavi. Per questo ti ho lasciato. Da te potevo sopportare tutto, ma non la freddezza. — Gli accarezzò i capelli, poi lo prese ancora per le spalle. — Tu e la Morgol avete impedito al mio cuore di diventare pietra. Sono stato costretto a trasformare ogni parola che le avevo detto in una bugia. E tu l’hai di nuovo trasformata in una verità. Questa è stata la tua generosità, anche nel momento in cui mi odiavi.
— Tutto ciò che chiedevo, perfino quando l’odio per te mi rodeva, era una piccola, povera, insignificante ragione per amarti. Ma tu mi davi soltanto enigmi… Quando credetti che Ghisteslwchlohm ti avesse ucciso, piansi senza sapere perché. Quand’ero nelle terre del nord a suonare l’arpa col vento, troppo stanco anche per pensare, eri tu a darmi forza… a darmi una ragione per vivere. — Le mani gli si riaprirono lentamente. Ne poggiò una su una spalla del Supremo, esitante, e un tremito lo scosse. Nei suoi occhi scuri lesse la stanchezza, e qualcosa dell’infinita e terribile pazienza che lo aveva tenuto in vita così a lungo, solo e senza nome, minacciato dai suoi stessi consanguinei nel mondo degli uomini. Con una smorfia Morgon chinò il capo.
— Perfino io ho cercato di ucciderti.
Le dita dell’arpista gli sfiorarono una guancia, gli scostarono i capelli dagli occhi. — Hai impedito ai miei nemici di concentrare la loro attenzione su di me. Ma, Morgon, se quel giorno ad Anuin non ti fossi trattenuto, non so cos’avrei fatto. Se avessi usato il mio potere per fermarti, poi nessuno di noi sarebbe vissuto molto. E se avessi lasciato che tu mi uccidessi, disperato com’ero per aver trascinato me e te in una tale situazione, il potere che sarebbe passato nelle tue mani ti avrebbe distrutto. Così ti diedi un enigma, nella speranza che questo ti facesse pensare ad altro.
— Conoscevi bene il mio animo — sussurrò lui.
— No. Non hai fatto altro che sorprendermi… fin dall’inizio. Io sono vecchio quanto le pietre di questa piana. Le grandi città dei Signori della Terra furono distrutte da una guerra a cui nessun uomo avrebbe potuto sopravvivere. Io nacqui da una stirpe che viveva nell’innocenza; avevamo molto potere, e tuttavia capivamo le implicazioni del potere. È per questo che, anche se mi odiavi, io volli che tu capissi Ghisteslwchlohm e il modo in cui lui distrusse se stesso. Un tempo noi vivevamo pacificamente in quelle grandi città. Esse erano aperte a ogni mutamento. Il nostro aspetto cambiava ad ogni stagione, e prendevamo la conoscenza da tutte le cose: dal silenzio dell’entroterra al ghiaccio accecante delle desolazioni settentrionali. Non capimmo mai, finché non fu troppo tardi, che l’energia contenuta in ogni pietra e in ogni goccia d’acqua può governare l’esistenza come la distruzione. — Tacque e distolse lo sguardo, con una smorfia amara. — La donna che tu hai conosciuto come Eriel fu la prima di noi ad assumere tanto potere. Ed io fui il primo a vedere le implicazioni di quel potere… quel paradosso che sta alla base della magia e spinge allo studio degli enigmi. Così feci una scelta: cominciai a legare a me tutte le forme della terra secondo le loro stesse leggi, e non permisi più che qualcosa disturbasse quelle leggi. Ma dovetti combattere per impadronirmi delle leggi della terra, e non ci mettemmo molto a capire che guerra fosse quella. Il reame, così come tu lo conosci, non sarebbe sopravvissuto due giorni alle forze che vennero scatenate. Devastammo le nostre stesse città. Ci uccidemmo l’un l’altro. E strappando ogni potere ai nostri figli distruggemmo anche loro. Io avevo già imparato a dominare i venti, e questa fu la sola cosa che mi salvò. Riuscii a legare il potere di tutti gli altri Signori della Terra, lasciando loro soltanto quel poco con cui erano nati. Poi li spazzai nel mare, mentre il territorio devastato risanava se stesso pian piano. E misi nel sepolcro i nostri figli. Di tanto in tanto qualche Signore della Terra usciva dal mare, ma non avevano la forza di spezzare il legame che avevo posto su di loro. E non poterono mai trovarmi, perché i venti mi nascondevano. Fu allora che giunsero gli uomini…
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