Abraham Merritt - Gli abitatori del miraggio

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Gli abitatori del miraggio: краткое содержание, описание и аннотация

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Otto milioni di copie vendute per otto libri pubblicati: un record che nessun altro autore fantastico e fantascientifico ha mai eguagliato. Abraham Merritt, che siamo lieti di presentare sulle pagine di « Futuro » con uno dei suoi più noti capolavori, è una figura dominante nella letteratura immaginativa americana. Capostipite di una «scuola» che ha fra i suoi esponenti Fritz Leiber, Jack Vance ed Ira Levin, è il più grande ed affascinante creatore di mondi fantastici. Mondi dimenticati in luoghi inaccessibili, nascosti tra le pieghe del tempo, perduti tra i labirinti di altre sconosciute dimensioni. « Gli abitatori del miraggio » lo presenta in questa vena, che ha una grande tradizione narrativa. Merritt trasporta i suoi personaggi —ed i lettori con essi — dalla magica desolazione del deserto di Gobi, culla dell’uomo. agli universi misteriosi che si celano al di là dell’illusione e del miraggio. Universi popolati da figure mitiche, da genti e creature favolose, su cui domina l’ombra minacciosa del Kraken, che guida l’eterna battaglia fra il Bene ed il Male, incarnati in due figure di donna egualmente enigmatiche ed inafferrabili. Universi alternativi alla grigia realtà contemporanea, che fanno sognare e pensare.

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Da centinaia di gole salì un grido ruggente… poi silenzio. La vista mi si schiarì. Erano là, nella polvere, prostrati davanti a me… i lanceri uiguri.

Cercai lo stallone nero. Era vicino, dietro di me. Gli balzai in sella, lasciai le redini. Sfrecciò via come un oscuro fulmine tra le file degli uomini prostrati, giù, lungo la strada per l’oasi. Intravvidi vagamente gente che correva, che urlava. Nessuno cercò di fermarmi. Nessuno avrebbe potuto resistere all’impeto di quel cavallo gigantesco.

Ormai ero vicino alle porte interne del fortino di pietra dal quale eravamo passati il giorno innanzi. Erano spalancate. Le sentinelle mi guardarono, sbalordite. Cominciarono a rullare i tamburi, perentoriamente, dal tempio. Mi voltai indietro. C’era una grande confusione all’ingresso, un rimescolio caotico. I lanceri uiguri stavano scendendo l’ampia strada, come una fiumana.

Le porte cominciarono a chiudersi. Lanciai avanti lo stallone, superando le guardie, fui all’interno del fortino. Raggiunsi la porta esterna. Era chiusa. I tamburi, rullavano più forte, minacciosi, imperiosi.

Recuperai un po’ di lucidità. Ordinai alle sentinelle di aprire. Mi guardarono tremando. Ma non obbedirono. Balzai dallo stallone e corsi verso di loro. Alzai la mano. L’anello di Khalk’ru scintillò. Gli uomini si buttarono a terra davanti a me… ma non aprirono le porte.

Vidi, sul muro, gli otri pieni d’acqua. Ne presi uno, e un sacco di grano. Per terra c’era un’enorme lastra di pietra. La sollevai come se fosse stata un ciottolo, e la scagliai contro la porta, nel punto in cui s’incontravano i due battenti; si spaccarono. Gettai l’otre d’acqua e il sacco di grano sulla sella, rimontai, e mi lanciai attraverso il portone fracassato.

Il grande cavallo passò dalla breccia come una rondine. Varcammo il ponte in rovina, scendemmo tonando l’antica strada.

Giungemmo all’estremità del burrone. La riconobbi dalle rocce cadute. Mi voltai indietro. Non c’era traccia d’inseguitori. Ma sentivo il ritmo fievole dei tamburi.

Ormai era pomeriggio avanzato. Percorremmo il burrone e uscimmo sul limitare della catena di colline d’arenaria. Era una crudeltà forzare il cavallo, ma non potevo permettermi di risparmiarlo. Al cader della notte avevamo raggiunto il territorio semiarido. Lo stallone puzzava di sudore, ed era stanco. Non aveva mai rallentato il passo, non si era mai ribellato. Aveva un gran cuore, quel cavallo. Decisi che aveva diritto di riposare, accadesse quello che sarebbe accaduto.

Trovai un punto riparato da alti macigni. All’improvviso, ricordai che indossavo ancora il giallo camice cerimoniale. Me lo strappai di dosso, nauseato e inorridito, e lo usai per massaggiare il cavallo. Gli diedi da bere e poi il grano. Mi accorsi di avere anch’io una fame terribile: non avevo mangiato nulla dal mattino. Masticai del grano e lo mandai giù con l’aiuto di un po’ di quell’acqua tiepida. Non c’era ancora traccia degli inseguitori, e i tamburi tacevano. Mi chiesi, inquieto, se gli uiguri conoscevano una scorciatoia e mi stavano aggirando. Gettai il camice sullo stallone e mi stesi per terra. Non avevo intenzione di dormire. Ma mi addormentai.

Mi svegliai bruscamente. Stava spuntando l’alba. In piedi davanti a me stavano il vecchio sacerdote e il capitano uiguro dagli occhi gelidi. Il mio nascondiglio era circondato dai lanceri. Il vecchio parlò, gentilmente.

«Noi non intendiamo farti alcun male, Dwayanu. Se è tuo volere lasciarci, non possiamo trattenerti. Colui al cui richiamo Khalk’ru ha risposto non ha nulla da temere da noi. La sua volontà è la nostra volontà.»

Non risposi. Quando lo guardai, rividi ciò che avevo visto nella caverna, non potevo vedere altro. Egli sospirò.

«È tuo volere lasciarci! Così sia!»

Il capitano uiguro non parlò.

«Ti abbiamo portato i tuoi vestiti, Dwayanu, pensando che volessi lasciarci abbigliato com’eri venuto,» disse il vecchio sacerdote.

Mi spogliai e indossai le mie vecchie cose. Il vecchio prese gli abiti sbiaditi. Tolse la tunica con la piovra dal dorso dello stallone. Il capitano parlò.

«Perché ci lasci, Dwayanu? Tu ci hai fatto riappacificare con Khalk’ru. Tu hai aperto le porte. Presto il deserto fiorirà come un tempo. Perché non rimani a guidarci verso la grandezza?»

Scossi il capo. Il vecchio sacerdote sospirò di nuovo.

«Questa è la sua volontà! Così sia! Ma ricorda, Dwayanu… colui al cui richiamo Khalk’ru ha risposto deve rispondere quando Khalk’ru lo chiama. E presto o tardi… Khalk’ru lo chiamerà!»

Mi sfiorò i capelli con le vecchie mani tremanti, mi toccò il cuore, e si voltò. Un drappello di lanceri roteò intorno a lui. Ripartirono.

Il capitano uiguro disse: «Noi aspetteremo per scortare Dwayanu nel suo viaggio.»

Montai sullo stallone. Arrivammo al nuovo accampamento della spedizione. Era deserto. Proseguimmo, verso il vecchio campo. Quel pomeriggio, sul tardi, vedemmo davanti a noi una carovana. Quando ci avvicinammo si fermarono, fecero preparativi frettolosi per difendersi. Era la spedizione… ancora in marcia. Agitai le mani, gridando.

Balzai dallo stallone nero, e ne porsi le redini all’uiguro.

«Prendilo,» dissi. Il suo viso perse l’abituale, cupa severità, s’illuminò.

«Sarà pronto per te quando tornerai da noi, Dwayanu. Lui o i suoi figli,» disse. Si portò la mia mano alla fronte, s’inginocchiò. «Sarà così per tutti noi, Dwayanu… saremo pronti ad attenderti, noi o i nostri figli. Quando tornerai.»

Montò in sella. Si volse verso di me, con i suoi cavalieri. Levarono le lance. Vi fu un grido assordante…

«Dwayanu!»

Corsero via.

Mi avviai a piedi verso Fairchild e gli altri che mi stavano aspettando.

Non appena ne ebbi la possibilità, ritornai in America. Volevo una sola cosa: mettere la maggiore distanza possibile tra me ed il tempio di Khalk’ru.

M’interruppi. Involontariamente, la mia mano cercò il sacchetto di pelle che portavo appeso al collo.

«Ma adesso,» feci, «sembra che non sia tanto facile sfuggirgli. Con i colpi sull’incudine, con i canti e i tamburi… Khalk’ru mi chiama!»

IL LIBRO DEL MIRAGGIO

V

IL MIRAGGIO

Jim era rimasto seduto in silenzio a scrutarmi, ma di tanto in tanto ne avevo visto la faccia perdere quel suo stoicismo indiano. Si tese e mi posò la mano sulla spalla.

«Leif,» disse sottovoce, «come potevo saperlo? Per la prima volta ti ho visto spaventato… e ne ho sofferto. Non sapevo…»

Da parte di Tsantawu il Cherokee, era già molto.

«Tutto a posto, indiano. Lascia perdere,» dissi, sgarbatamente.

Lui rimase in silenzio per qualche tempo, gettando ramoscelli sul fuoco.

«E che cosa disse il tuo amico Barr?» mi domandò all’improvviso.

«Mi fece una scenata d’inferno,» dissi io. «Mi fece una scenata d’inferno, con la faccia inondata di lacrime. Disse che nessuno aveva mai tradito la scienza come avevo fatto io, da quando Giuda aveva baciato Cristo. Era bravissimo a snocciolare metafore complicate che colpivano il segno. E mi colpirono a fondo, perché era esattamente quello che pensavo di me stesso… non tanto per quanto riguarda la scienza, ma per quella ragazza. Le avevo dato veramente il bacio di Giuda. Barr disse che mi era stata offerta l’occasione più grande della storia. Avrei potuto risolvere il mistero del Gobi e della sua civiltà perduta, ed ero scappato via come un bambino atterrito da un babau. Non ero una anticaglia soltanto fisicamente, lo ero anche nel cervello. Ero un selvaggio biondo che tremava di paura davanti a quattro formule magiche. Disse che, se fosse capitata a lui la stessa occasione, si sarebbe fatto crocifiggere, pur di scoprire la verità. E lo avrebbe fatto davvero, per giunta. Non mentiva.»

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