Abraham Merritt - Gli abitatori del miraggio

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Gli abitatori del miraggio: краткое содержание, описание и аннотация

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Otto milioni di copie vendute per otto libri pubblicati: un record che nessun altro autore fantastico e fantascientifico ha mai eguagliato. Abraham Merritt, che siamo lieti di presentare sulle pagine di « Futuro » con uno dei suoi più noti capolavori, è una figura dominante nella letteratura immaginativa americana. Capostipite di una «scuola» che ha fra i suoi esponenti Fritz Leiber, Jack Vance ed Ira Levin, è il più grande ed affascinante creatore di mondi fantastici. Mondi dimenticati in luoghi inaccessibili, nascosti tra le pieghe del tempo, perduti tra i labirinti di altre sconosciute dimensioni. « Gli abitatori del miraggio » lo presenta in questa vena, che ha una grande tradizione narrativa. Merritt trasporta i suoi personaggi —ed i lettori con essi — dalla magica desolazione del deserto di Gobi, culla dell’uomo. agli universi misteriosi che si celano al di là dell’illusione e del miraggio. Universi popolati da figure mitiche, da genti e creature favolose, su cui domina l’ombra minacciosa del Kraken, che guida l’eterna battaglia fra il Bene ed il Male, incarnati in due figure di donna egualmente enigmatiche ed inafferrabili. Universi alternativi alla grigia realtà contemporanea, che fanno sognare e pensare.

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«Probabilmente sono state lasciate da quel ghiacciaio, quando si è ritirato», risposi. «Sembra la parte terminale di una morena. Anzi, questo posto pare addirittura essere stato scavato dal ghiaccio.»

«Tienimi per i piedi, Leif. Voglio dare un’occhiata.» Jim si sdraiò sul ventre e strisciò verso il ciglio del precipizio. Dopo un minuto o due lo sentii gridare, e lo trascinai indietro.

«C’è una frana, circa un quattrocento metri più avanti, sulla sinistra,» disse lui. «Non sono riuscito a vedere se arriva fino in cima. Andiamo a controllare. Leif, quanto credi che sia profonda la valle?»

«Oh, al massimo un centinaio di metri.»

«Sono trecento metri buoni, come minimo. Il precipizio va giù e poi ancora giù. Non capisco cosa faccia sembrare il fondo più vicino, da qui. È un posto molto strano.»

Riprendemmo gli zaini e ci mettemmo in cammino, costeggiando la muraglia di macigni. Dopo un po’ arrivammo ad un ampio varco. Il gelo e il ghiaccio avevano eroso la roccia, lungo qualche crepa. I detriti frantumati scorrevano giù per la ripida discesa, come beole gigantesche che portavano sino al fondovalle.

«Dovremo toglierci gli zaini, per riuscirci,» disse Jim. «Che cosa facciamo? Li lasciamo qui mentre esploriamo, oppure ce li portiamo giù?»

«Portiamoli con noi. Deve esserci una via d’uscita, laggiù ai piedi della montagna più grande.»

Iniziammo la discesa. Io stavo scavalcando una roccia, a circa un terzo di strada, quando sentii Jim lanciare una brusca esclamazione.

Era scomparso il ghiacciaio che aveva sospinto la lingua bianca tra i detriti. Erano spariti i detriti. Verso la sua estremità più lontana, il fondo della valle era coperto di dozzine di pietre nere piramidali, ognuna segnata al centro da una striscia bianca, scintillante. Erano disposte in file, ad intervalli regolari, come i dolmen degli antichi druidi. Scendevano fino a metà della valle. Qua e là, in mezzo alle pietre, si levavano fili di vapore bianco, come fumi di sacrifici.

Tra quelle pietre e noi, a lambire le nere pareti rocciose, c’era un lago azzurro, increspato! Riempiva la parte inferiore della valle, da un lato all’altro. S’increspava sulle rocce schiantate molto più in basso rispetto a noi.

Poi qualcosa, nelle file ordinate di piramidi nere, mi colpì.

«Jim! Le rocce piramidali! Ognuna di esse è una copia ridotta della montagna che sta là dietro! Hanno persino la striscia bianca!»

Mentre parlavo, il lago azzurro fremette. Fluì tra le piramidi nere, sommergendole a mezzo e spegnendo i fumi sacrificali. Coprì le piramidi. Fremette ancora. Sparì. Dove c’era stato il lago, adesso c’era di nuovo il fondovalle, coperto dai detriti morenici.

C’era stata una sfumatura bizzarra, come di un gioco di prestigio in quelle trasformazioni, come l’opera fulminea di un abile mago. Ed era stata magia… a modo suo. Ma io avevo già visto la natura compiere magie del genere.

«Diavolo!» esclamai. «È un miraggio!»

Jim non rispose. Stava guardando fisso la valle, con un’espressione strana.

«Cosa ti ha preso, Tsantawu? Stai ascoltando di nuovo gli antenati? È soltanto un miraggio.»

«Sì?» fece lui. «Ma quale? Il lago… o le rocce?»

Scrutai il fondovalle. Sembrava abbastanza reale. La teoria della morena glaciale spiegava il suo aspetto bizzarramente piatto… Inoltre, eravamo ancora ad una certa altezza, per questo ci sembrava una spianata. Quando vi fossimo arrivati, avremmo scoperto che la distribuzione dei macigni era scomodamente irregolare. Lo avrei giurato.

«Come? Il lago, naturalmente.»

«No,» disse Jim. «Io credo che siano le pietre, il miraggio.»

«Assurdo. C’è uno strato d’aria calda, laggiù. Le pietre irradiano il calore del Sole. L’aria fredda la comprime. È una delle condizioni che causano i miraggi, e infatti ne ha appena prodotto uno. Ecco tutto.»

«No,» disse lui. «Non è tutto.»

Si appoggiò alla roccia.

«Leif, l’altra notte gli antenati hanno detto qualcosa che non ti ho riferito.»

«Lo so maledettamente bene.»

«Hanno parlato di Ataga’hi. Questo non ti dice niente?»

«Assolutamente niente».

«Non ha detto nulla neanche a me… allora. Ma adesso ha un senso. Ataga’hi era un lago incantato, nella parte più selvaggia dei Great Smokies a occidente del corso superiore dell’Ocanaluftee. Era il lago della medicina per gli animali e per gli uccelli. Tutti i Cherokee sapevano che c’era, anche se pochissimi l’avevano visto. Se un cacciatore sperduto si avvicinava, vedeva soltanto una piana sassosa, senza un filo d’erba, bruttissima. Ma, con la preghiera, il digiuno ed una notte di veglia, poteva acuire la sua vista spirituale. E allora, all’alba, poteva contemplare una distesa poco profonda d’acqua violetta, alimentata da fonti che scaturivano dalle alte pareti rocciose circostanti. E nell’acqua si trovavano pesci e anfibi d’ogni specie, branchi di anitre e di oche e di altri uccelli volavano intorno, e sulle rive del lago c’erano tracce di animali. Andavano ad Ataga’hi per guarire delle ferite e delle malattie. Il Grande Spirito aveva posto un’isola, in mezzo al lago. Gli animali e gli uccelli feriti o malati la raggiungevano a nuoto. Quando ci arrivavano… le acque di Ataga’hi li avevano guariti. Salivano sulle sue rive… di nuovo sani. Su Ataga’hi regnava la pace di Dio. Tutte le creature vivevano in amicizia.»

«Stammi a sentire, indiano: vorresti farmi credere che questo è il tuo lago della medicina?»

«Non ho detto niente del genere. Ho detto che continua a tornarmi in mente il nome di Ataga’hi. Era un luogo che sembrava una piana sassosa, senza un filo d’erba, bruttissima. E lo sembra anche questo posto. Ma sotto l’illusione c’era… un lago. Noi abbiamo visto un lago. È una coincidenza bizzarra, ecco tutto. Forse la piana rocciosa di Ataga’hi era un miraggio…» Esitò. «Beh, se continuano a scomparire altre cose di cui hanno parlato gli antenati, cambierò idea e accetterò la tua versione della faccenda del Gobi.»

«Il miraggio era il lago, te lo ripeto.»

Jim scosse il capo, ostinato.

«Forse. Ma forse anche quello che vediamo laggiù è un miraggio. Forse sono miraggi tutti e due. E in questo caso, a che profondità è il vero fondovalle, e riusciremo davvero ad attraversarlo?»

Si fermò a guardare in silenzio la valle. Rabbrividì, e ancora una volta notai la strana intensità del freddo. Mi chinai e ripresi lo zaino. Avevo le mani intorpidite.

«Beh, qualunque cosa sia… scopriamolo.»

Un fremito percorse il fondovalle. All’improvviso, ridiventò lo scintillante lago azzurro. E altrettanto improvvisamente, ridivenne una distesa di rocce.

Ma non prima che mi fosse sembrato di vedere entro quel lago d’illusione — se era illusione — una forma d’ombra gigantesca, enormi tentacoli neri che si protendevano da un corpo immenso e nebuloso… un corpo che pareva svanire in lontananze incommensurabili… svanire nel vuoto… come il Kraken della caverna del Gobi era parso svanire nel vuoto… in quel vuoto che era… Khalk’ru!

Strisciammo, scivolammo, scavalcammo gli enormi frammenti schiantati. Più scendevamo, e più il freddo si faceva intenso. Era silenzioso e rabbrividente, e penetrava fino al midollo. Qualche volta lanciavamo gli zaini davanti a noi, qualche volta ce li trascinavamo dietro. E il freddo ci azzannava le ossa, sempre più rabbioso.

Più guardavo il fondovalle, e più mi sentivo sicuro della sua realtà. Tutti i miraggi che avevo avuto occasione di vedere — e in Mongolia ne avevo visti molti — erano arretrati, avevano cambiato forma e si erano dileguati via via che mi avvicinavo. Il fondovalle non faceva nulla del genere. Era vero che le pietre sembravano più tozze, mano a mano che scendevamo: ma io attribuii il fenomeno al diverso angolo di visuale.

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