Abraham Merritt - Gli abitatori del miraggio

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Gli abitatori del miraggio: краткое содержание, описание и аннотация

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Otto milioni di copie vendute per otto libri pubblicati: un record che nessun altro autore fantastico e fantascientifico ha mai eguagliato. Abraham Merritt, che siamo lieti di presentare sulle pagine di « Futuro » con uno dei suoi più noti capolavori, è una figura dominante nella letteratura immaginativa americana. Capostipite di una «scuola» che ha fra i suoi esponenti Fritz Leiber, Jack Vance ed Ira Levin, è il più grande ed affascinante creatore di mondi fantastici. Mondi dimenticati in luoghi inaccessibili, nascosti tra le pieghe del tempo, perduti tra i labirinti di altre sconosciute dimensioni. « Gli abitatori del miraggio » lo presenta in questa vena, che ha una grande tradizione narrativa. Merritt trasporta i suoi personaggi —ed i lettori con essi — dalla magica desolazione del deserto di Gobi, culla dell’uomo. agli universi misteriosi che si celano al di là dell’illusione e del miraggio. Universi popolati da figure mitiche, da genti e creature favolose, su cui domina l’ombra minacciosa del Kraken, che guida l’eterna battaglia fra il Bene ed il Male, incarnati in due figure di donna egualmente enigmatiche ed inafferrabili. Universi alternativi alla grigia realtà contemporanea, che fanno sognare e pensare.

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Mi condussero in un’altra sala. Alle pareti erano appesi arazzi sbiaditi e laceri. Erano intessuti in modo da raffigurare scene di caccia e di guerra. C’erano strani sgabelli e sedie d’un metallo che poteva essere rame ma poteva anche essere oro, un divano largo e basso, ed in un angolo lance, un arco e due spade, uno scudo e un elmo di bronzo a forma di cuffia. Tutto, tranne i tappeti stesi al suolo, aveva un’aria immensamente antica. In quella stanza mi lavarono, mi rasarono meticolosamente e mi accorciarono i capelli: una cerimonia accompagnata da riti di purificazione talvolta piuttosto sorprendenti.

Poi mi consegnarono una sottoveste di cotone che mi inguainò dal collo ai piedi. Poi un paio di calzoni ampi e lunghi che sembravano intessuti di filo d’oro, reso morbido come la seta. Notai, divertito, che erano stati accuratamente rammendati e rattoppati. Mi chiesi da quanti secoli era morto l’uomo che li aveva portati per primo. Poi mi fecero indossare una lunga casacca dello stesso tessuto, e mi calzarono con un paio di alti coturni, dai ricami complicati e un po’ laceri.

Il vecchio sacerdote mi mise al pollice l’anello, e indietreggiò, guardandomi estatico. Evidentemente, non vedeva le ingiurie che il tempo aveva arrecato ai miei abiti. Per lui, ero lo splendido personaggio del passato che immaginava io fossi.

«Così eri quando la nostra razza era grande,» disse. «E presto, quando avrà recuperato un poco della sua grandezza, ricondurremo qui coloro che dimorano ancora nella Terra Oscurata.»

«La Terra Oscurata?» chiesi.

«È lontana, ad oriente, oltre le Grandi Acque,» disse il vecchio. «Ma noi sappiamo che vi dimorano quelli di Khalk’ru che fuggirono al tempo del grande sacrificio, quando la terra feconda degli uiguri si cambiò in deserto. Saranno di sangue puro come te, Dwayanu, e tu troverai delle compagne tra quelle donne. E con il tempo, noi dal sangue impuro scompariremo, e la terra degli uiguri sarà nuovamente popolata dalla sua antica razza.»

Si allontanò bruscamente, seguito dagli altri sacerdoti. Sulla soglia si voltò.

«Attendi qui,» disse, «fino a quando ti manderò a chiamare.»

IV

IL TENTACOLO DI KHALK’RU

Attesi un’ora, esaminando le curiose suppellettili della stanza, e divertendomi ad esercitarmi con le due spade. Poi mi girai di scatto e scorsi il capitano uiguro che mi osservava dalla soglia, con gli occhi chiari scintillanti.

«Per Zarda!» esclamò. «Qualunque cosa tu abbia dimenticato, non è certo l’uso della spada! Ci hai lasciati da guerriero, e guerriero sei ritornato!»

Piegò un ginocchio a terra e chinò il capo.

«Perdona, Dwayanu! Sono stato mandato a chiamarti. È ora di andare.»

Mi colse un’esaltazione vertiginosa. Lasciai cadere le spade. e gli battei una mano sulla spalla. L’accolse come un’investitura. Percorremmo il corridoio vigilato dai lanceri e varcammo la soglia del grande portale. Ci accolse un grido tonante.

«Dwayanu!»

E poi squilli di trombe, il rullo poderoso dei tamburi, lo scrosciare dei cembali.

Davanti al palazzo era fermo un quadrato di cavalieri uiguri: erano almeno cinquecento, con le lance che scintillavano e gli orifiamma che garrivano al vento. All’interno del quadrato ce ne erano altri, in file ordinate. Vidi che questi erano uomini e donne, abbigliati di vesti antiche quanto le mie, e luccicanti nella forte luce del Sole come un enorme tappeto multicolore tessuto di fili metallici. Sopra di loro svolazzavano bandiere e bandierine, lacere, sbrindellate e ornate di strani simboli. Sul lato più lontano del quadrato scorsi il vecchio sacerdote e gli altri sacerdoti di grado inferiore che lo fiancheggiavano: tutti erano a cavallo, e vestivano di giallo. Sopra di loro garriva una bandiera gialla; quando il vento la spiegava vi si scorgeva, nera, la figura del Kraken. Oltre il quadrato dei cavalieri, centinaia di uiguri si accalcavano e spingevano per riuscire a vedermi. Mi fermai, battendo le palpebre, ed un altro grido si mescolò al rullo dei tamburi.

«Il re ritorna al suo popolo!» aveva detto Barr. Beh, era proprio così.

Un morbido muso mi toccò. Accanto a me c’era lo stallone nero. Montai. Seguito dal capitano uiguro, mi avviai al trotto lungo lo spazio libero tra le file ordinate. Li guardai, nel passare. Tutti, uomini e donne, avevano gli occhi chiari, grigiazzurri, e tutti erano più alti e forti di quanto lo fossero, in media, gli esemplari della loro razza. Pensai che quelli dovevano essere i nobili, il fior fiore delle antiche famiglie, in cui era più forte il vecchio sangue. Le bandiere lacere recavano i simboli dei loro clan. Negli occhi degli uomini leggevo l’esultanza. Prima di raggiungere i sacerdoti avevo letto il terrore negli occhi di molte donne.

Mi accostai al vecchio sacerdote. La fila dei cavalieri, davanti a noi, si aprì. Passammo attraverso quel varco, fianco a fianco. Gli altri sacerdoti ci vennero dietro, seguiti a loro volta dai nobili. Disposti in una lunga, doppia fila ai lati del corteo, trottavano i cavalieri uiguri, mentre le trombe squillavano, i tamburi e i timpani rullavano, i cembali scrosciavano in frenetici ritmi trionfali.

«Il re ritorna…»

Come vorrei che qualcosa mi avesse scagliato allora sulle lance degli uiguri!

Passammo al trotto in mezzo al verde dell’oasi. Varcammo un ampio ponte, costruito sull’esiguo ruscello quando era ancora un fiume poderoso. Gli zoccoli dei nostri cavalli calpestarono l’antica strada che conduceva diritto alla porta nella montagna, a poco più d’un chilometro e mezzo di distanza. Sentii crescere in me l’esultanza che mi stordiva. Mi voltai indietro. E all’improvviso ricordai i rammendi e le toppe sui miei calzoni e sulla mia casacca. Anche il mio seguito era caratterizzato dallo stesso squallore. Mi fece sentire un po’ meno re, e un poco più umile. Li vidi come uomini e donne sospinti dai fantasmi famelici del loro sangue non più puro, fantasmi di forti antenati che s’indebolivano via via che s’indeboliva l’antico sangue, e si sfinivano come questo si esauriva; ma erano ancora abbastanza forti da rumoreggiare contro l’estinzione, forti abbastanza per comandare i loro cervelli e la loro volontà, per spingerli verso qualcosa che i fantasmi ritenevano capace di saziare la loro fame, di renderli di nuovo fortissimi.

Sì, avevo pietà di loro. Era assurdo pensare che io potessi saziare la fame dei loro fantasmi, ma c’era una cosa che potevo fare, per loro. Inscenare una recita a loro beneficio. Ripetei mentalmente il rituale che mi aveva insegnato il vecchio sacerdote, ricordai ogni gesto.

Alzai gli occhi e vidi che eravamo sulla soglia della porta scavata nella montagna. Era abbastanza ampia per lasciar passare una fila di venti cavalieri. Le tozze colonne che avevo visto sotto il tocco del vecchio sacerdote giacevano al suolo, schiantate. Non provai ripugnanza né impulsi di ribellione all’idea di entrare, questa volta. Ero ansioso, anzi, di entrare e di farla finita.

I lanceri avanzarono al trotto e si misero di guardia accanto all’apertura. Smontai, e affidai ad uno di loro le redini dello stallone. Con il vecchio sacerdote al fianco e seguito dagli altri, varcai la soglia della porta in rovina, e mi addentrai nella montagna. La galleria, o il vestibolo, era illuminata da lanterne a muro in cui ardevano le fiamme bianche e luminose. A cento passi dall’entrata si apriva un’altra galleria, formando un angolo di circa quindici gradi rispetto a quella principale. Il grande sacerdote svoltò lì. Mi girai indietro. I nobili non erano ancora entrati: li vidi smontare, all’ingresso. Procedemmo in silenzio per circa trecento metri: poi il passaggio sfociò in una piccola camera quadrata, tagliata nell’arenaria rossa: a lato c’era un’altra porta, velata da pesanti drappi. Lì non c’era nulla, tranne alcuni cofani di pietra di varie dimensioni, lungo le pareti.

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