Abraham Merritt - Gli abitatori del miraggio

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Otto milioni di copie vendute per otto libri pubblicati: un record che nessun altro autore fantastico e fantascientifico ha mai eguagliato. Abraham Merritt, che siamo lieti di presentare sulle pagine di « Futuro » con uno dei suoi più noti capolavori, è una figura dominante nella letteratura immaginativa americana. Capostipite di una «scuola» che ha fra i suoi esponenti Fritz Leiber, Jack Vance ed Ira Levin, è il più grande ed affascinante creatore di mondi fantastici. Mondi dimenticati in luoghi inaccessibili, nascosti tra le pieghe del tempo, perduti tra i labirinti di altre sconosciute dimensioni. « Gli abitatori del miraggio » lo presenta in questa vena, che ha una grande tradizione narrativa. Merritt trasporta i suoi personaggi —ed i lettori con essi — dalla magica desolazione del deserto di Gobi, culla dell’uomo. agli universi misteriosi che si celano al di là dell’illusione e del miraggio. Universi popolati da figure mitiche, da genti e creature favolose, su cui domina l’ombra minacciosa del Kraken, che guida l’eterna battaglia fra il Bene ed il Male, incarnati in due figure di donna egualmente enigmatiche ed inafferrabili. Universi alternativi alla grigia realtà contemporanea, che fanno sognare e pensare.

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Lo stallone piegò la testa, mi toccò delicatamente con il muso, mi soffiò un lungo respiro sul collo, e si distese accanto a me. Mi sistemai in modo da appoggiargli la testa sul collo. Gli uiguri bisbigliarono eccitati. Mi addormentai.

Fui svegliato all’alba. La colazione era pronta. Ripartimmo lungo l’antica strada. Costeggiava le colline, seguendo il letto di quello che, una volta, doveva essere stato un ampio fiume. Per qualche tempo le alture orientali ci ripararono dal Sole. Quando cominciò a picchiare direttamente su di noi, riposammo all’ombra di alcune rocce immense. Verso la metà del pomeriggio ci rimettemmo in cammino. Poco prima del tramonto, attraversammo il letto asciutto del fiume, varcando quello che una volta era stato un ponte massiccio. Passammo per un’altra gola, attraverso la quale scorreva anticamente il corso d’acqua scomparso, ed al crepuscolo arrivammo in fondo.

Ai due lati dell’imboccatura di quella gola poco profonda dominavano dei rossi torrioni di pietra. Erano difesi da dozzine di uiguri. Gridarono, quando ci videro avvicinare, ed io sentii ripetere di nuovo parecchie volte la parola «Dwayanu».

Si spalancarono le porte massicce del torrione di destra. Entrammo in un passaggio sotto il muro robusto, passammo al trotto attraverso un ampio cortile, e ne uscimmo attraverso una porta identica.

Vidi davanti a me un’oasi cinta dalle montagne brulle. Un tempo doveva sorgervi una città piuttosto grande, perché dovunque era costellata di rovine. Quella che, forse, era stata la sorgente del fiume si era ridotta ad un ruscello che sprofondava nella sabbia non molto lontano dal punto in cui mi trovavo. A destra del ruscello c’erano vegetazione ed alberi; a sinistra la desolazione. La strada passava in mezzo all’oasi e tagliava quel terreno arido. Si fermava, e forse vi entrava, davanti ad un’enorme apertura squadrata nella parete di roccia a più di un chilometro e mezzo di distanza: quell’apertura sembrava una porta tagliata nella montagna, o l’ingresso di una gigantesca tomba egizia.

Noi scendemmo nella zona fertile. Lì vi erano centinaia di antichi edifici di pietra: e ci si era sforzati di mantenerne alcuni in condizioni discrete. Tuttavia la loro antichità mi colpì la mente. Tra gli alberi, poi, c’erano anche molte tende. E dagli edifici e dalle tende stavano uscendo gli uiguri, uomini, donne e bambini. Soltanto i guerrieri dovevano essere all’incirca un migliaio. A differenza degli uomini dei torrioni, questi mi guardarono in silenzio intimoriti, mentre passavo.

Ci fermammo davanti ad un mucchio di rovine erose dal tempo, che forse era stato un palazzo… cinquemila anni prima, o forse diecimila. Oppure un tempio. Lungo la facciata sorgeva un colonnato di tozzi pilastri quadrati. Altri, ancora più massicci, stavano a fianco dell’entrata. Smontammo. Lo stallone e il cavallo della mia guida vennero presi in custodia dalla nostra scorta. Inchinandosi profondamente sulla soglia, la mia guida m’invitò ad entrare.

Mi trovai in un ampio corridoio, fiancheggiato da guerrieri armati di lance e illuminato da fiaccole di legno resinoso. Il capo uiguro si avviò al mio fianco. Il corridoio portava in una sala enorme, altissima, così larga e lunga che le torce appese alle pareti ne facevano sembrare ancora più buia la parte centrale. In fondo stava una bassa pedana, su cui c’era un tavolo di pietra: seduti al tavolo c’erano parecchi uomini incappucciati.

Mentre mi avvicinavo, sentivo gli occhi degli incappucciati fissi su di me, e notai che erano tredici: sei ad ogni lato del personaggio seduto nel seggio più alto, all’estremità del tavolo. Intorno a loro stavano alte lanterne metalliche, in cui ardeva una sostanza che irradiava una luce bianca, costante e fulgida. Mi avvicinai e mi fermai. La mia guida non parlò: neppure gli altri parlarono.

All’improvviso, la luce colpì l’anello, che scintillò.

L’uomo incappucciato a capotavola si alzò, si aggrappò con le mani tremanti che parevano artigli avvizziti. Lo sentii mormorare «Dwayanu!»

Il cappuccio gli ricadde dalla testa sulle spalle. Scorsi una faccia vecchissima, dagli occhi azzurri quasi come i miei, pieni di sbalordimento e di appassionata speranza. Mi commossi, perché era l’espressione di un uomo perduto da molto tempo nella disperazione che vede apparire un salvatore.

Anche gli altri si alzarono, e ributtarono i cappucci sulle spalle. Erano vecchi, ma non quanto colui che aveva fatto udire quel mormorio. Mi sentii pesare addosso i loro occhi freddi, grigioazzurri. Il gran sacerdote, poiché avevo immaginato che fosse tale, ed infatti risultò esserlo, parlò di nuovo:

«Me lo avevano detto… ma non potevo crederlo! Vuoi venire da me?»

Balzai sulla pedana e mi avviai verso di lui. Accostò il volto antico al mio, scrutandomi negli occhi. Mi sfiorò i capelli. Mi insinuò una mano dentro la camicia e me la posò sul cuore. Poi disse: «Mostrami le tue mani.»

Le appoggiai sul tavolo, a palme in su. Il vecchio le esaminò attentamente, come aveva fatto il capo uiguro. Gli altri dodici si raccolsero attorno a noi, seguendo con lo sguardo le sue dita che indicavano questo e quel segno. Il vecchio si sfilò dal collo una catena d’oro, e trasse dalle pieghe della veste un grosso pezzo di giada, piatto e quadrato. Lo aprì. All’interno c’era una pietra gialla più grande di quella del mio anello, ma simile in tutto il resto: nelle sue profondità si contorceva la piovra nera… o il Kraken. Accanto c’erano una boccetta di giada ed un minuscolo coltello anch’esso di giada, simile a un bisturi. Il vecchio mi prese la destra, mettendo il mio polso sopra la pietra gialla. Guardò me e gli altri con occhi pieni di sofferenza.

«L’ultima prova,» mormorò. «Il sangue!»

Punse con il coltello una vena del mio polso. Il sangue sgorgò, cadde lentamente, goccia a goccia, sopra la pietra. Allora mi accorsi che era leggermente concava. Cadendo, il sangue formò una pellicola sottile, dal fondo all’orlo. Il vecchio sacerdote sollevò la boccetta di giada, la stappò e, con un evidente, doloroso sforzo di volontà, la tenne saldamente sopra la pietra gialla. Una goccia di fluido incolore cadde e si mescolò con il mio sangue.

Nella sala regnava il silenzio più assoluto: il sacerdote ed i suoi ministri, pareva, avevano smesso di respirare e fissavano la pietra. Lanciai un’occhiata al capo uiguro: mi stava guardando con occhi sbarrati, ardenti di fanatismo.

Il gran sacerdote lanciò un’esclamazione, subito riecheggiata dagli altri. Abbassai lo sguardo sulla pietra. La pellicola rossastra stava cambiando colore. Una bizzarra scintilla la percorse, la trasformò in una pellicola di un verde trasparente e luminoso.

«Dwayanu!» ansimò il gran sacerdote, e si lasciò ricadere sul seggio, coprendosi il viso con mani tremanti. Gli altri fissavano alternativamente me e la pietra, e poi di nuovo me, come se avessero assistito ad un miracolo. Guardai il capo uiguro. Si era prostrato ai piedi del palco.

Il gran sacerdote si scoprì il volto. Mi sembrò diventato incredibilmente più giovane: era trasformato. I suoi occhi non erano più colmi di disperazione e di sofferenza, ma di ardore. Si alzò dal seggio, e mi fece sedere al suo posto.

«Dwayanu,» mi disse, «che cosa ricordi?»

Scossi il capo, perplesso: era un eco delle parole pronunciate al campo dall’uiguro.

«Cosa dovrei ricordare?» chiesi.

Il suo sguardo mi abbandonò, cercò i visi degli altri, interrogativamente: come se il sacerdote avesse parlato, quelli si scambiarono occhiate, poi annuirono. Il vecchio richiuse l’astuccio di giada e se lo ripose in petto. Mi prese la mano, girò il castone dell’anello sotto il mio pollice e mi chiuse la mano.

«Ricordi…» La sua voce si abbassò fino a diventare il più fievole dei mormoni. « Khalk’ru

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