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Abraham Merritt: Gli abitatori del miraggio

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Abraham Merritt Gli abitatori del miraggio
  • Название:
    Gli abitatori del miraggio
  • Автор:
  • Издательство:
    Fanucci
  • Жанр:
  • Год:
    1977
  • Город:
    Roma
  • Язык:
    Итальянский
  • Рейтинг книги:
    3 / 5
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Gli abitatori del miraggio: краткое содержание, описание и аннотация

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Otto milioni di copie vendute per otto libri pubblicati: un record che nessun altro autore fantastico e fantascientifico ha mai eguagliato. Abraham Merritt, che siamo lieti di presentare sulle pagine di « Futuro » con uno dei suoi più noti capolavori, è una figura dominante nella letteratura immaginativa americana. Capostipite di una «scuola» che ha fra i suoi esponenti Fritz Leiber, Jack Vance ed Ira Levin, è il più grande ed affascinante creatore di mondi fantastici. Mondi dimenticati in luoghi inaccessibili, nascosti tra le pieghe del tempo, perduti tra i labirinti di altre sconosciute dimensioni. « Gli abitatori del miraggio » lo presenta in questa vena, che ha una grande tradizione narrativa. Merritt trasporta i suoi personaggi —ed i lettori con essi — dalla magica desolazione del deserto di Gobi, culla dell’uomo. agli universi misteriosi che si celano al di là dell’illusione e del miraggio. Universi popolati da figure mitiche, da genti e creature favolose, su cui domina l’ombra minacciosa del Kraken, che guida l’eterna battaglia fra il Bene ed il Male, incarnati in due figure di donna egualmente enigmatiche ed inafferrabili. Universi alternativi alla grigia realtà contemporanea, che fanno sognare e pensare.

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La cosa mi aveva reso infelice, ma aveva indotto mia madre a consacrarmi il suo cuore. Come tante altre volte, mi chiesi come aveva potuto accettare mio padre, un uomo cupo ed egocentrico, lei, con il sangue degli scorridori dei mari che le cantava nelle vene. Era stata lei a chiamarmi Leif… un nome incongruo per un Langdon, così come era incongrua la mia nascita.

Jim ed io eravamo entrati a Dartmouth lo stesso giorno. Lo vedevo come era allora: il ragazzo alto e bruno dalla faccia aquilina e dagli imperscrutabili occhi neri, Cherokee purosangue, del clan da cui era venuto il grande Sequoiah, un clan che aveva prodotto, in molti secoli, saggi consiglieri e guerrieri forti ed astuti.

Nei registri del college il suo nome era scritto James T. Eagles, ma negli annali della Nazione Cherokee era scritto Due Aquile, e sua madre lo aveva chiamato Tsantawu. Fin dal primo momento avevamo riconosciuto la nostra affinità spirituale. Con gli antichi riti del suo popolo eravamo diventati fratelli di sangue, e lui mi aveva dato un nome segreto, noto a noi due soltanto, Degataga: uno che è così vicino ad un altro che i due sono uno.

La mia unica dote, a parte la forza, è la facilità per le lingue. Ben presto, parlavo il Cherokee come se fossi nato nella Nazione. Gli anni trascorsi al college erano stati i più felici della mia vita. Verso la fine di quel periodo, l’America entrò nella prima guerra mondiale. Avevamo lasciato insieme Dartmouth, eravamo andati al campo d’addestramento, eravamo partiti per la Francia con la stessa nave.

E mentre stavo là, sotto la lenta alba dell’Alaska, la mia mente balzò agli anni intermedi. La morte di mia madre il giorno dell’Armistizio… il mio ritorno a New York, in una famiglia apertamente ostile… il ritorno di Jim al suo clan… la fine del mio corso d’ingegneria mineraria… i miei vagabondaggi in Asia… il secondo ritorno in America e la ricerca di Jim… questa nostra spedizione in Alaska, più per cameratismo e per amore della pace di quei luoghi deserti che per l’oro che avremmo dovuto cercare.

Era una lunga strada, dopo la Guerra… e gli ultimi due mesi erano stati i più felici. Ci aveva portati da Nome alle tundre, e poi al Koyukuk, e infine a quel piccolo accampamento tra gli abeti, da qualche parte tra il corso superiore del Koyukuk e il Chandalar, ai piedi dei primi contrafforti dell’inesplorato Endicott Range.

Una lunga strada… Avevo la sensazione che proprio lì incominciasse la vera strada della mia vita.

Un raggio del Sole sorgente scoccò tra gli alberi. Jim si levò a sedere, mi guardò e sogghignò.

«Non hai dormito molto dopo il concerto, vero?»

«Che cos’hai fatto agli antenati? Non sembra che ti abbiano tenuto sveglio per molto.»

Jim rispose, con troppa disinvoltura: «Oh, si sono calmati.» Aveva volto ed occhi imperscrutabili. Mi stava nascondendo il suo pensiero. Gli antenati non si erano calmati. Era rimasto sveglio, mentre io credevo che dormisse. Presi una decisione fulminea. Saremmo andati a Sud, come avevamo stabilito. Sarei andato con lui fino a Circle. Poi avrei trovato qualche pretesto per lasciarcelo.

Dissi: «Non andremo a Nord. Ho cambiato idea.»

«Sì. Perché?»

«Te lo dirò quando avremo fatto colazione,» risposi io… Non so inventare le bugie molto rapidamente. «Accendi il fuoco, Jim. Io scendo al ruscello a prendere un po’ d’acqua.»

«Degataga!»

Trasalii. Lui mi chiamava con il nome segreto solo nei rari momenti di grande comprensione o di grande pericolo.

«Degataga, tu andrai a Nord! Ci andrai, anche se dovrò precederti per costringerti a seguirmi…» Prese a parlare in lingua Cherokee. «È per salvare il tuo spirito, Degataga. Dobbiamo marciare insieme… come fratelli di sangue? Oppure mi striscerai dietro, come un cane tremante alle calcagna del cacciatore?»

Il sangue mi martellava alle tempie: alzai di scatto la mano verso di lui. Jim si tirò indietro e rise.

«Così va meglio, Leif.»

La rabbia passeggera mi abbandonò, la mia mano ricadde.

«D’accordo, Tsantawu. Andiamo… a Nord. Ma non era… non era per me che ti ho detto di avere cambiato idea.»

«Lo so maledettamente bene!»

Si diede da fare per accendere il fuoco. Io andai a prendere l’acqua. Bevemmo il forte tè nero, e mangiammo gli avanzi di quelle piccole cicogne brune che chiamano tacchini dell’Alaska, e che avevamo preso il giorno prima. Quando avemmo finito, cominciai a parlare.

II

L’ANELLO DEL KRAKEN

Tre anni prima — così incominciai il mio racconto — ero andato in Mongolia con la spedizione Fairchild. Tra i suoi scopi c’era anche una prospezione mineralogica per conto di certe società britanniche, e una ricerca etnografica e ancheologica per conto del British Museum e della Pennsylvania University.

Non ebbi mai occasione di dimostrare le mie capacità di ingegnere minerario. Divenni subito ambasciatore, saltimbanco, agente di collegamento tra la spedizione e le tribù locali. La mia statura, i miei capelli gialli, gli occhi azzurri e la forza eccezionale, e la facilità con cui apprendevo le lingue erano per loro fonte d’incessante interesse. Tartari, mongoli, buriati, kirghisi, stavano a guardarmi mentre piegavo ferri di cavallo, curvavo sbarre di metallo sul ginocchio ed eseguivo quelli che mio padre usava chiamare sprezzantemente numeri da circo.

Bene, per loro ero proprio questo: un circo. Eppure ero qualcosa di più… mi trovavano simpatico. Il vecchio Fairchild rideva quando mi lagnavo di non avere tempo per il mio lavoro tecnico. Mi diceva che valevo una dozzina d’ingegneri minerari, ero la polizza d’assicurazione della spedizione e che finché continuavo con i miei numeri non ci sarebbero stati fastidi. E infatti non ce ne furono. Fu l’unica spedizione del suo genere, che io sappia, dove si poteva lasciare la propria roba incustodita e ritrovarla intatta al ritorno. E poi, non ci furono tentativi di estorsione né diserzioni.

In pochissimo tempo avevo imparato mezza dozzina di dialetti ed ero in grado di chiacchierare e di discutere nella loro lingua con gli uomini delle varie tribù. A loro la cosa faceva una grande impressione. E di tanto in tanto arrivava una delegazione di mongoli, con un paio di lottatori, tipi grandi e grossi con il torace a botte, per sfidarmi. Io imparai i loro trucchi, ed insegnai loro i nostri. Facevamo gare di sollevamento dei pony, e alcuni miei amici mancesi m’insegnarono a combattere con due spadoni… uno per mano.

Fairchild aveva progettato di rimanere un anno, ma i giorni trascorrevano così tranquilli che aveva deciso di prolungare la durata della spedizione. Il mio numero, mi disse con quel suo modo sardonico, aveva senza dubbio una vitalità perenne: la scienza non avrebbe mai avuto un’altra simile occasione d’oro in quella regione… a meno che mi decidessi a restare e a governare. Non sapeva che quella frase era quasi una profezia.

All’inizio dell’estate dell’anno seguente, spostammo il campo un centinaio di chilometri più a Nord. Quello era territorio uiguro. Gli uiguri sono un popolo strano. Dicono di discendere da una grande razza che dominava il Gobi quando non era un deserto bensì un paradiso terrestre, ricco di fiumi e di laghi e di città popolose. È certo che sono diversi da tutte le altre tribù, e benché queste li uccidano allegramente appena possono, ne hanno comunque paura. O meglio, hanno paura delle stregonerie dei loro sacerdoti.

Gli uiguri erano comparsi di rado al vecchio campo e quando lo facevano, si tenevano a distanza. Eravamo al nuovo campo da meno di una settimana quando ne arrivò un gruppo di venti, a cavallo. Io ero seduto all’ombra della mia tenda. Smontarono e vennero diritti verso di me. Non prestarono attenzione a nessun altro. Si fermarono a circa quattro metri di distanza. Tre si fecero più vicini e si fermarono a studiarmi. Quei tre avevano gli occhi di uno strano azzurro-grigio; quelli dell’uomo che sembrava comandarli erano singolarmente freddi. I tre erano più alti e robusti degli altri.

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