Robert Jordan - Il sentiero dei pugnali
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Daviena aveva occhi verdi e capelli tra il biondo e il rosso, Losaine invece aveva gli occhi grigi e i capelli neri che mostravano qualche sfumatura di rosso solo sotto il sole; entrambe erano molto più alte di Verin ed entrambe avevano la cupa espressione di chi si è visto assegnare un compito che avrebbe preferito passare a qualcun altro. Nessuna delle due poteva incanalare con forza sufficiente da poter gestire Turanna, ma si legarono una all’altra come se per tutta la vita non avessero fatto altro che comporre dei circoli, e la luce di saidar intorno a una si fuse con quella dell’altra malgrado fossero fisicamente distanti. Verin si costrinse a sorridere per evitare di accigliarsi. E questo dove l’avevano imparato? Avrebbe scommesso di tutto che appena qualche giorno addietro non lo sapevano fare.
Tutto procedette rapidamente, e senza problemi. Quando i due uomini, accovacciandosi, presero Turanna tenendola per le braccia, lei lasciò cadere la coppa d’argento. Vuota, per sua fortuna. Turanna non oppose resistenza — e anche questo fu un bene, visto che uno qualsiasi di quegli Aiel poteva tranquillamente portarla fuori sotto un braccio come fosse un sacco di grano — ma la sua bocca rimase aperta a emettere un lamento senza fine.
Gli Aiel non le prestarono attenzione. Daviena, concentrando la potenza di quel circolo composto da due elementi, assunse il controllo dello schermo, e Verin lasciò il contatto con la Fonte. Nessuna di quelle due donne si sarebbe mai fidata di vederla abbracciare saidar senza saperne il motivo, nonostante i giuramenti da lei prestati. Nessuna delle due parve farci caso, ma di sicuro la situazione sarebbe cambiata se lei non avesse lasciato andare saidar. Gli uomini trascinarono via Turanna, i piedi scalzi strusciarono sugli strati di tappeti che coprivano il pavimento della tenda, e le Sapienti li seguirono all’esterno. Tutto qua. Quello che si poteva fare con Turanna era stato fatto.
Lasciando andare un lungo respiro, Verin sprofondò su uno dei cuscini dai colori accesi con i fiocchi lungo i bordi. Sui tappeti accanto a lei era poggiato un bel vassoio fatto di corde dorate. Dopo aver riempito dalla brocca di peltro una delle coppe d’argento scompagnate, Verin prese una lunga sorsata. Le faceva venir sete quel lavoro, e la stancava. Restavano ancora alcune ore di luce solare, eppure lei si sentiva come se avesse portato un cesto pesante per una ventina di chilometri. Risalendo diverse colline. La coppa tornò sul vassoio, e lei estrasse il piccolo taccuino rilegato in pelle che portava dietro la cintura. Ci voleva sempre un po’ di tempo perché le portassero le donne che chiedeva di vedere. Un po’ di tempo per consultare gli appunti — e per prenderne altri — non sarebbe andato sprecato.
Non c’era motivo di prendere appunti sulle prigioniere, ma l’improvvisa comparsa di Cadsuane Melaidhrin, tre giorni addietro, le dava da pensare.
Quali erano gli scopi di quella donna? Le sue compagne non erano degne di nota, ma Cadsuane stessa era una leggenda, e anche solo le parti credibili del suo mito la rendevano estremamente pericolosa. Pericolosa e imprevedibile. Verin prese una penna dal minuto scrittoio di legno che aveva sempre con sé, si sporse verso la bottiglia d’inchiostro nel suo apposito contenitore. E un’altra Sapiente entrò nella tenda.
Verin si mise goffamente in piedi così in fretta che lasciò cadere il taccuino. Aeron era del tutto incapace di incanalare, eppure le riverenze che lei rivolse a quella donna dai capelli ingrigiti furono molto più formali di quelle tributate a Daviena e Losaine. Giunta alla fine del profondo inchino, lasciò le gonne per protendersi verso il taccuino, ma le dita di Aeron ci arrivarono prima. Verin si raddrizzò, osservando con calma l’altra donna, più alta di lei, che sfogliava le varie pagine.
Occhi azzurri come il cielo incontrarono i suoi. In quel cielo c’era l’inverno. «Bei disegni e un sacco di nozioni su piante e fiori» disse fredda Aeron. «Non vedo nulla che riguardi le domande che sei stata inviata a fare.» Lanciò il taccuino a Verin più che passarglielo.
«Grazie, Sapiente» rispose lei umile, infilando di nuovo il taccuino al sicuro dietro la cintura. Aggiunse anche un’altra riverenza, per buona misura, profonda almeno quanto la precedente. «Ho l’abitudine di prendere appunti su quello che vedo.» Un giorno o l’altro avrebbe dovuto scrivere il codice che usava per i suoi taccuini — la raccolta di una vita riempiva casse e credenze nelle sue stanze sopra la biblioteca della Torre Bianca. Un giorno o l’altro, ma sperava che fosse quanto più in là possibile. «Riguardo le... ehm... prigioniere, finora mi hanno detto tutte la stessa cosa, anche se in versioni diverse. Il Car’a’carn sarebbe stato ospite della Torre fino all’Ultima Battaglia. Il suo... ehm... maltrattamento è cominciato per via di un tentativo di fuga. Ma questo lo sapete già, ovviamente. Non temete, però: sono sicura che scoprirò di più.» Tutto vero, anche se non tutta la verità; aveva visto morire troppe sorelle per rischiare di condannarne altre alla tomba senza un motivo davvero valido. Il problema era capire cosa potesse portare in quella direzione. Il rapimento del giovane al’Thor da parte di una delegazione che avrebbe dovuto trattare con lui faceva nascere negli Aiel una rabbia omicida, eppure ciò che Verin aveva definito ‘maltrattamento’ sembrava renderli appena nervosi.
I braccialetti d’oro e d’avorio fecero un lieve rumorio quando Aeron si aggiustò lo scialle scuro. Scrutò Verin come per leggerle nella mente.
Quella donna doveva avere una posizione elevata tra le Sapienti, e sebbene Verin avesse talvolta visto un sorriso increspare quelle guance abbronzate, un sorriso caldo e naturale, non era mai stato diretto a un’Aes Sedai. ‘Non avremmo mai sospettato che sareste state voi a fallire’ aveva detto a Verin, una frase per certi versi oscura. Ma il resto si era rivelato fin troppo chiaro.
‘Le Aes Sedai non hanno onore. Dammi un minimo motivo di sospetto, e io stessa ti frusterò finché non ti reggerai più in piedi. Dammi un motivo valido, e ti impalerò per darti in pasto ad avvoltoi e formiche.' Verin l’aveva guardata cercando di sembrarle aperta e priva di segreti. E umile: non doveva mai dimenticare l’umiltà. Docile e compiacente. Non aveva paura.
A suo tempo aveva dovuto affrontare sguardi anche più duri, da parte di donne — e uomini — che si sarebbero fatti ancor meno scrupoli di Aeron a porre fine alla sua vita. Ma quasi tutti i suoi sforzi erano serviti proprio a farsi inviare a fare quelle domande. Non poteva permettersi di rovinare tutto. Se solo quegli Aiel avessero mostrato qualche emozione sui loro volti.
A un tratto si rese conto che non erano più sole nella tenda. Due Fanciulle dai capelli chiarissimi erano entrate con una donna di un palmo più bassa di entrambe. La sorreggevano per farla stare dritta. E in disparte c’era Tialin, magra e coi capelli rossi, un’espressione truce sotto il bagliore di saidar col quale teneva schermata la prigioniera vestita di nero. I capelli della sorella pendevano in ricci zuppi di sudore sulle spalle, con alcune ciocche appiccicate a un viso così sporco che sulle prime Verin non l’aveva riconosciuta. Zigomi alti, ma non molto, un naso appena adunco e gli occhi castani leggermente a mandorla... Beldeine. Beldeine Nyram. Lei stessa le aveva dato qualche lezione quando era novizia.
«Se posso chiedere,» disse con cautela Verin «perché mi avete portato lei? Io avevo chiesto di vedere un’altra donna.» Beldeine non aveva Custodi, malgrado fosse una Verde — aveva conquistato lo scialle da appena tre anni, e spesso le Verdi erano particolarmente puntigliose nella scelta del primo Gaidin — ma se gli Aiel cominciavano a condurre da lei chiunque volevano, la prossima avrebbe potuto averne due o tre. Credeva di poter sopportare altri due incontri quel giorno, ma non se le donne in questione avevano anche un solo Custode. E dubitava che le Aiel le avrebbero dato una seconda possibilità.
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