Robert Jordan - Il sentiero dei pugnali

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Verin trattenne un sospiro. Innanzitutto, non le sarebbe mai piaciuto vedere delle sorelle trattate a quel modo, quale che fosse lo scopo o il motivo, e poi era ovvio che quasi tutte le Sapienti volevano... Cosa? Volevano farle sapere che essere un’Aes Sedai lì non voleva dire nulla? Ridicolo.

L’avevano già chiarito fin troppo bene alcuni giorni prima. Volevano forse dirle che anche a lei poteva toccare la veste nera? Per il momento Verin credeva di essere al sicuro da quell’evenienza, ma le Sapienti avevano ancora un gran numero di segreti che lei non era riuscita a scoprire; uno tra questi, e nemmeno il più importante, era il funzionamento della loro gerarchia. Di sicuro non era il più importante, eppure poteva costare la vita o almeno una manciata di frustate. Una donna poteva dare ordini a un’altra ma anche essere comandata da quest’ultima, e i ruoli potevano invertirsi più volte, il tutto senza uno schema o un motivo che Verin riuscisse a vedere. Tuttavia, nessuno comandava Sorilea, e questa forse era la chiave della salvezza. Per certi versi.

Verin non poté reprimere un moto di soddisfazione. All’alba, nel Palazzo del Sole, Sorilea aveva voluto sapere quale fosse il massimo disonore per un abitante delle terre bagnate. Kiruna e le altre sorelle non avevano capito: non facevano nessuno sforzo concreto per rendersi conto della realtà che le circondava, forse per paura di ciò che potevano apprendere, per paura delle tensioni che la conoscenza avrebbe esercitato sui loro giuramenti.

Si sforzavano di trovare delle giustificazioni per il sentiero sul quale le aveva messe il destino, ma Verin aveva già dei motivi per la via che seguiva e per gli scopi che la motivavano. E aveva anche un preciso elenco nella borsa attaccata alla cintura, pronta a consegnarlo a Sorilea quando si fossero trovate da sole. Non c’era bisogno che altri sapessero. Non aveva mai conosciuto alcune delle prigioniere, ma credeva che quel suo elenco riassumesse le debolezze di gran parte di quelle donne, ed era questo che Sorilea stava cercando. La vita si sarebbe fatta ancor più dura per quelle con la veste nera. E, con un po’ di fortuna, il compito di Verin ne avrebbe tratto un gran giovamento.

Due grossi Aiel, entrambi con le spalle larghe quanto un manico d’ascia, sedevano fuori dalla tenda e sembravano assorti in un gioco che consisteva nel formare figure sempre più complesse con degli elastici intorno alle dita, ma si erano girati subito quando lei si era affacciata oltre i lembi dell’ingresso. Coram si era alzato come un serpente che svolgeva le sue spire, e Mendan aspettava, pronto a riporre l’elastico della loro partita. Se Verin si fosse messa in piedi, non sarebbe arrivata neppure al petto di quei due uomini. Ovviamente, però, era in grado di metterli entrambi a testa in giù e sculacciarli. Se ne avesse avuto il coraggio. Di tanto in tanto, aveva avuto la tentazione di farlo. Erano le sue guide, la proteggevano da eventuali incomprensioni nell’accampamento. E senza dubbio facevano rapporto su ogni sua parola o azione. Per certi versi, Verin avrebbe preferito che ci fosse Tomas al posto loro. Ma d’altra parte conservare un segreto col proprio Custode era molto più difficile che con degli estranei.

«Per favore, di’ a Colinda che con Turanna Norill ho finito,» disse a Coram «e chiedile di mandarmi Katerine Alruddin.» Voleva vedersela prima con le sorelle che non avevano Custodi. L’Aiel annuì prima di andar via, senza parlare. Quel popolo non era un granché quanto a maniere civili.

Mendan si accovacciò di nuovo, osservandola con occhi di un azzurro sorprendente. Uno dei due rimaneva sempre con lei, qualsiasi cosa Verin dicesse. Mendan aveva una striscia di tessuto rosso legata introno alla fronte e segnata con l’antico simbolo delle Aes Sedai. Come gli altri uomini che la portavano, e come le Fanciulle, sembrava non aspettare altro che lei facesse un errore. Be’, non erano i primi a controllarla a quel modo, né tanto meno i più pericolosi. Erano passati settantun anni dall’ultimo vero errore di Verin.

L’Aes Sedai sorrise a Mendan in modo volutamente vago e cominciò ad arretrare di nuovo nella tenda, quando all’improvviso qualcosa colse il suo sguardo e la catturò come stringendola in una morsa. Se l’alto Aiel avesse provato a tagliarle la gola in quello stesso momento, non se ne sarebbe neppure accorta.

Poco lontano dalla sua tenda, dove lei se ne stava ancora piegata in avanti, nove o dieci donne erano inginocchiate in fila e facevano ruotare le macine sopra delle pietre piatte, una scena tipica di qualsiasi fattoria isolata. Altre donne portavano il grano in dei cesti e raccoglievano la farina grezza. Le donne in ginocchio avevano gonne nere e bluse chiare, con fasce di tessuto ripiegato a tenere indietro i capelli. Una, notevolmente più bassa delle altre e la sola i cui capelli non arrivavano fino alla vita, non aveva bracciali né collane. Alzò il capo, e il risentimento sul suo volto arrossato dal sole si fece più acuto quando incontrò lo sguardo di Verin. Solo per un istante, però, prima che la donna tornasse in tutta fretta al suo compito.

Verin rientrò di scatto nella tenda, con lo stomaco in subbuglio. Irgain apparteneva all’Ajah Verde. O meglio, era appartenuta, prima che Rand al’Thor la quietasse. Essere schermata dalla fonte rendeva più debole e indistinto il legame col Custode, ma una volta quietata quel legame veniva reciso come se la donna o l’uomo in questione fossero morti. E in effetti uno dei due Custodi di Irgain era davvero morto per il contraccolpo, mentre l’altro si era lasciato uccidere combattendo contro un migliaio di Aiel senza neppure tentare la fuga. Con ogni probabilità, anche Irgain desiderava morire. Quietata. Verin si schiacciò le mani sul ventre. Si ripromise di non vomitare. Aveva visto di peggio che una donna quietata. Ben di peggio.

«Non c’è speranza, vero?» mormorò Turanna con voce impastata. Piangeva in silenzio, fissando la coppa d’argento che teneva tra mani tremanti come se dentro ci vedesse qualcosa di lontano e terribile. «Nessuna speranza.»

«Un modo c’è sempre, basta cercare» rispose Verin, battendole una mano distratta sulla schiena. «Devi sempre cercare.»

I suoi pensieri correvano veloci, e nessuno riguardava Turanna. Il fatto che Irgain fosse stata quietata le faceva rivoltare lo stomaco, la Luce sapeva quanto era vero. Ma perché mai quella donna doveva macinare il grano?

E vestita come una Aiel, poi! Possibile che le fosse stato assegnato quel lavoro proprio perché Verin potesse vederla? Una domanda stupida; anche con un ta’veren come Rand lontano solo pochi chilometri, c’era un limite al numero di coincidenze che poteva accettare. Che avesse fatto male i suoi calcoli? Nel peggiore dei casi, non poteva trattarsi di un grosso errore. Solo che talvolta i piccoli errori si rivelavano fatali almeno quanto quelli grandi. Quanto a lungo avrebbe resistito Verin se Sorilea avesse deciso di spezzarla? Poco, fastidiosamente poco, sospettava. Per certi versi, Sorilea era la persona più dura che avesse mai conosciuto. E lei non avrebbe potuto dire o fare nulla per fermarla. Quella però era una preoccupazione da lasciare a un altro giorno. Non aveva senso fasciarsi la testa prima di essersela rotta.

Inginocchiandosi anche lei, Verin si impegnò un po’ di più a consolare Turanna, ma non più di tanto. Parole di conforto che suonavano vuote alle sue orecchie come a quelle dell’altra, a giudicare dall’espressione vacua nei suoi occhi. Nulla avrebbe potuto modificare le condizioni di Turanna tranne Turanna stessa, e la spinta doveva venire dall’interno. La sorella Bianca si limitò a piangere più forte, senza emettere alcun suono mentre le spalle tremavano e il volto si rigava di lacrime. L’ingresso di due Sapienti e un paio di giovani aiel che non potevano stare in piedi all’interno della tenda fu per certi versi un sollievo. Per Verin, quanto meno. Lei si alzò e fece un elegante riverenza, ma nessuno dei nuovi arrivati le mostrò il minimo interesse.

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