L’orrore suscitato da questa prospettiva mi fece pulsare le vene del collo. Eppure, persino in quel momento, una remota parte razionale della mente m’indicò alcuni punti deboli di quella previsione catastrofica: Se i miei contemporanei, cioè gli antenati dei Morlock, riflettei, fossero stati sterminati, allora gli stessi Morlock non avrebbero potuto evolversi, dunque neppure impadronirsi della macchina del tempo e tornare nel passato. Non è forse un paradosso? Infatti, solo una delle due possibilità avrebbe potuto avverarsi. Non bisogna dimenticare che stavo ancora meditando, quasi inconsciamente, sul problema irrisolto del mio secondo viaggio nel tempo e sulla biforcazione della storia che avevo constatato. In cuor mio, sapevo di essere ben lungi da una vera comprensione del viaggio nel tempo, dei suoi fondamenti e delle sue conseguenze.
Accantonai quelle riflessioni e replicai a Nebogipfel: — Mai! Non vi aiuterò mai a capire come viaggiare nel tempo!
La guida mi scrutò: — In tal caso, nel rispetto degli obblighi che ti ho esposto, sei libero di viaggiare ovunque nei nostri mondi.
— Bene, allora ti chiedo di condurmi in un luogo, ovunque si trovi in questo nuovo sistema solare, dove esistano ancora uomini come me.
Lanciai questa sfida aspettandomi, suppongo, una risposta negativa.
Con mia sorpresa, invece, Nebogipfel si avvicinò: — Non sono esattamente come te, in ogni modo… Vieni. — Così dicendo, si rimise in marcia attraverso l’immensa pianura brulicante di Morlock.
Pensai che le sue ultime parole non facessero presagire nulla di buono, anche se non ne compresi il significato. Comunque non avevo altra scelta che seguirlo.
Quando mi ero ormai convinto di aver perso l’orientamento in quell’immensa sala-città, giungemmo in una zona sgombra, larga circa un quarto di miglio. Nebogipfel indossò gli occhiali. Quanto a me, li portavo già.
D’improvviso, un raggio luminoso scese inarcandosi dall’alto e ci investì in pieno. Scrutando nella calda luce gialla, vidi un pulviscolo fluttuare nell’aria, e per un momento ebbi l’impressione di essere tornato nella Gabbia di Luce.
Non mi ero accorto che Nebogipfel avesse azionato qualche comando della macchina invisibile del pavimento, ma pochi secondi più tardi quest’ultimo cedette sotto i miei piedi con un sussulto brusco e del tutto inaspettato, simile a un piccolo terremoto. Vacillai, recuperando subito l’equilibrio.
— Che cos’è stato?
Nebogipfel rimase impassibile come sempre. — Forse avrei dovuto avvertirti… È incominciata la nostra ascesa.
— Ascesa?
Mi accorsi che un disco di vetro, del diametro di circa un quarto di miglio, s’innalzava dal pavimento, sollevando me e Nebogipfel: mi sembrò di essere sulla cima di una colonna immensa che spuntasse dal suolo. A circa tre metri d’altezza, la nostra salita parve accelerare e sentii una lieve brezza sulla fronte.
Avvicinatomi al bordo del disco, osservai la vasta sala che si stendeva sotto di noi, piatta e uniformemente popolata, fin dove giungeva lo sguardo. Il pavimento sembrava una mappa in filo d’argento su fondo nero — forse a raffigurare delle costellazioni — sovrapposta al vero panorama stellare. Due visi argentei si alzarono a seguirci con lo sguardo mentre salivamo, ma i Morlock per la maggior parte rimasero indifferenti.
— Nebogipfel… Dove stiamo andando?
Con calma, la mia guida rispose: — Nell’Interno.
Mi accorsi di un cambiamento della luce che, non più condensata in un unico raggio, parve diventare più intensa e più diffusa, come quando la si vede dal fondo di un pozzo.
Alzai lo sguardo: il disco di luce sopra di me si stava allargando, permettendomi di scorgere un anello azzurro tutt’intorno. Era il cielo, cosparso di nubi soffici e vaporose, che appariva come chiazzato. Dapprima questo effetto mi sembrò dovuto agli occhiali che ancora portavo.
Volgendosi verso di me, Nebogipfel batté con un piede sulla base della piattaforma, provocando la comparsa di un oggetto che sul momento non riconobbi: una sorta di ciotola, da cui si innalzava al centro un’asta. Soltanto quando Nebogipfel la prese sollevandola sopra la testa, capii che si trattava di un semplice parasole, per proteggere la sua pelle pallida dal calore e dalla luce.
Così equipaggiati, salimmo nel pozzo luminoso che si allargava, finché la mia testa — la testa di un uomo del diciannovesimo secolo — spuntò in una pianura erbosa.
— Benvenuto nell’Interno — annunciò Nebogipfel, che con il parasole appariva decisamente comico.
La nostra colonna di luce larga un quarto di miglio s’innalzò per gli ultimi pochi metri in assoluto silenzio. Ebbi l’impressione di essere l’assistente di un illusionista che salisse su un palco. Dopo essermi tolto gli occhiali, mi ombreggiai gli occhi con le mani.
La piattaforma rallentò sino a fermarsi. Il bordo si fuse al prato corto e irto che lo cingeva, privo di giunture, come una superficie di cemento. La mia ombra divenne una nitida macchia scura sotto di me. Era mezzogiorno, naturalmente: ovunque, nell’Interno, era mezzogiorno, per tutto il giorno, tutti i giorni! Il sole accecante mi percuoteva la testa e il collo, tanto che temetti di restare ustionato in breve tempo. Però ne valse la pena, in quel momento, per la sensazione piacevole che ne trassi.
Mi girai a osservare il paesaggio.
Erba… La prateria uniforme si stendeva in tutte le direzioni sino all’orizzonte, a parte il fatto che in quel mondo piatto non esisteva alcun orizzonte. Nell’alzare lo sguardo, mi aspettai di vedere il mondo incurvarsi verso l’alto, perché dopotutto non ero più incollato alla superficie esterna di una piccola sfera di roccia come la Terra, bensì mi trovavo all’interno di un immenso guscio vuoto. Invece non constatai nessun effetto ottico: vidi soltanto la prateria che si prolungava a perdita d’occhio, con qualche boschetto e qualche gruppo di cespugli. Il cielo era una pianura di nubi soffici, tinta d’azzurro, che si univa alla terra in una giuntura piatta di foschia e di polvere.
— Mi sembra di stare sopra un tavolo gigantesco — dissi. — Credevo che il paesaggio avrebbe avuto l’aspetto di una ciotola immane. A causa di quale paradosso non riesco a percepire di trovarmi all’interno di una grande sfera o all’esterno di un pianeta gigante?
— C’è un modo per percepirlo — rispose Nebogipfel, ombreggiato dal parasole. — Guarda in alto…
Allora inclinai la testa all’indietro. Dapprima vidi soltanto il sole, e il cielo, che avrebbe potuto essere quello della Terra. Poi, poco a poco, cominciai a intravedere qualcosa oltre le nubi: erano le chiazze che avevo osservato poco prima, attribuendole agli occhiali. Si trattava di sfumature d’azzurro, di grigio e di verde, simili all’effetto di un acquarello, tali che le più grandi rimpicciolivano al confronto con i più piccoli brandelli di nubi. Sembrava una mappa, o meglio, alcune mappe schiacciate insieme e viste da una grande lontananza.
E fu proprio quest’analogia a condurmi alla verità.
— È il lato opposto della Sfera, oltre il sole… Immagino che le macchie di colore che vedo siano gli oceani, i continenti, le catene montuose, le praterie, e forse persino le città!
Era un paesaggio straordinario, come se le superfici rocciose di migliaia di pianeti scorticati fossero state appese come tante pellicce di coniglio. La vastità della Sfera era tale che non si percepiva alcuna curvatura: piuttosto, era come trovarsi compresso fra strati diversi, ossia fra la prateria piatta e il coperchio del cielo chiazzato, con il sole sospeso in mezzo come una lanterna, e le profondità dello spazio a un miglio o due soltanto sotto i miei piedi.
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