Arthur Clarke - Le fontane del Paradiso

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Protagonista del romanzo è l'ingegnere Morgan, creatore del Ponte di Gibilterra. Grazie alla rivoluzionaria tecnologia del cavo cristallino monomolecolare (citato a più riprese anche da William Gibson), per la prima volta diventa tecnicamente possibile costruire un "ascensore spaziale", ovvero una torre che connetta la superficie terrestre ad un satellite geostazionario, e che renda obsoleti i razzi vettori. Il romanzo narra gli sforzi e la lotta di Morgan per realizzare il suo sogno, a dispetto di un esercito di oppositori: politici, concorrenti, grandi compagnie, banche, e persino monaci buddisti. Ma il colpo di scena del romanzo è l'arrivo di Stellaplano, una sonda aliena automatica che visita il Sistema Solare sconvolgendo con la sua sola comparsa la vita, la società, la filosofia, l'etica e le religioni terrestri. Dopo la visita di Stellaplano, niente più sul nostro pianeta sarà come prima.
Altra caratteristica notevole di
, il fatto che la maggior parte della storia si svolga a Sri Lanka. Clarke riesce in questo romanzo ad omaggiare lo straordinario passato della sua patria d'adozione, e nel contempo ad offrirci una panoramica sulle bellezze e sulle meraviglie dell'isola indiana.

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Solo Warren Kingsley non si unì alla gioia generale. — Non cantiamo vittoria troppo presto — disse a Maxine. — Non è ancora finita.

Passarono i secondi… Un minuto… Due minuti…

— Inutile — disse finalmente Morgan, con una voce piena di rabbia e frustrazione. — Non riesco a muovere la cinghia. Il peso della batteria la tiene schiacciata sulle filettature. Quei colpi di freno devono averla impigliata nel bullone.

— Torna indietro alla massima velocità — disse Kingsley. — È quasi pronto un nuovo accumulatore, e in meno di un'ora riusciamo a farti ripartire. Per cui riusciremo a raggiungere la Torre in… oh, diciamo sei ore. Salvo altri incidenti, naturalmente.

Appunto, pensò Morgan; e non avrebbe accettato di ripartire col Ragno senza un controllo millimetrico dei freni, sottoposti a sforzi eccessivi. Non si sarebbe fidato neppure della propria resistenza a un secondo viaggio: sentiva già il peso delle ultime ore, e presto la fatica avrebbe rallentato i ritmi del suo corpo e della mente, proprio quando avrebbero dovuto trovarsi al massimo dell'efficienza.

Adesso era di nuovo sul sedile, però la capsula era ancora aperta sullo spazio, e non aveva riallacciato la cintura di sicurezza. Quel gesto avrebbe significato ammettere la sconfitta; il che per Morgan non era mai stato facile.

Il bagliore immobile del laser della Stazione Kinte, che giungeva da un punto quasi direttamente sopra di lui, lo trafiggeva col suo candore implacabile. Cercò di concentrare la mente sul problema con la stessa precisione con cui quel raggio era concentrato su di lui.

Gli serviva solo un utensile di metallo, un'accetta o una cesoia, per tagliare la cinghia che bloccava la batteria. Maledisse ancora una volta il fatto che sul Ragno non ci fosse una cassetta di attrezzi; comunque sarebbe stato difficile che contenesse quello che gli serviva.

Nella batteria del Ragno erano imprigionati megawattore di energia; non poteva proprio sfruttarli? Immaginò per un attimo di riuscire a creare un arco e tagliare in due, bruciandola, la cinghia; ma anche se avesse avuto a disposizione i conduttori necessari, e naturalmente non li aveva, era impossibile raggiungere la batteria dalla cabina di controllo.

Warren, e tutti i brillanti cervelli radunati attorno a lui, non erano riusciti a trovare una soluzione. Morgan era abbandonato a se stesso, fisicamente e intellettualmente. Dopo tutto, era il tipo di situazioni che aveva sempre preferito.

E poi, proprio mentre stava per richiudere il portello della capsula, seppe cosa doveva fare. La soluzione era sempre stata lì.

52

L'altro passeggero

A Morgan parve che gli avessero tolto dalle spalle un peso enorme. Si sentiva completamente, irrazionalmente fiducioso. Questa volta "doveva" funzionare. Però non si mosse dal sedile prima di aver studiato le azioni che doveva compiere nei minimi dettagli. E quando Kingsley, leggermente ansioso, lo spronò di nuovo a tornare indietro, gli diede una risposta evasiva. Non voleva accendere false speranze, né sulla Terra né sulla Torre.

— Tenterò un esperimento — disse. — Lasciatemi in pace per qualche minuto.

Prese il distributore di iperfilamento che aveva usato per tante dimostrazioni, la filiera che, anni prima, gli aveva permesso di scendere lungo la parete di Yakkagala. Per motivi di sicurezza era stata apportata una modifica: il primo metro di filamento era stato ricoperto d'uno strato di plastica, per cui adesso non era più invisibile, e con cautela estrema lo si poteva maneggiare anche a mani nude.

Osservando la scatoletta che teneva in mano, Morgan capì che ormai la considerava un talismano, un vero e proprio portafortuna. Naturalmente, non credeva sul serio in cose del genere; aveva sempre un motivo perfettamente logico di portarsi dietro la filiera. In quel viaggio aveva pensato che potesse essergli utile per la sua robustezza e l'eccezionale forza di sollevamento. Si era quasi scordato che aveva anche altre qualità.

Si alzò ancora una volta dal sedile e s'inginocchiò sulla griglia metallica all'esterno del Ragno, per esaminare la causa di tanti guai. Il bullone maledetto si trovava a soli dieci centimetri da lui, dall'altra parte della griglia. Le sbarre erano troppo fitte per riuscire a infilar dentro la mano, però aveva già visto che poteva aggirarla senza troppe difficoltà.

Fece uscire il primo metro di iperfilamento rivestito di plastica, e usando l'anello all'estremità come piombino fece passare il filamento attraverso la griglia. Appoggiò la filiera in un angolo formato dalle pareti della capsula, in modo che se anche l'urtava non volasse giù; poi fece girare la mano attorno alla griglia e afferrò l'anello che dondolava. La cosa non fu facile come credeva: anche quella tuta flessibilissima non consentiva al braccio di piegarsi del tutto liberamente, e l'anello, oscillando avanti e indietro, sfuggiva alla presa.

Dopo una mezza dozzina di tentativi (più faticosi che irritanti, perché sapeva che prima o poi ce l'avrebbe fatta) aveva arrotolato la fibra attorno allo stelo del bullone, appena sotto la cinghia impigliata. Adesso veniva il difficile…

Fece uscire ancora un po' di filamento, quel tanto che bastava perché la fibra nuda raggiungesse il bullone e vi passasse attorno; poi tirò un colpo forte, finché sentì che il nodo aveva agganciato la filettatura del bullone. Morgan non aveva mai condotto un esperimento del genere su sbarre di acciaio rinvenuto più spesse di un centimetro, e non aveva idea di quanto tempo occorresse. Si appoggiò alla parete del Ragno e cominciò a manovrare la sua sega invisibile.

Dopo cinque minuti era tutto sudato, e non capiva se aveva fatto il minimo progresso. Aveva paura di diminuire la tensione, perché la fibra poteva sciogliersi dal cappio altrettanto invisibile che, sperava, stava segando il bullone. Warren lo aveva chiamato diverse volte, sempre più allarmato, e lui lo aveva tranquillizzato sbrigativamente. Tra un po' si sarebbe riposato, avrebbe ripreso fiato e spiegato cosa stava cercando di fare. Era il minimo che doveva al suo amico in ansia.

— Van — disse Kingsley — cosa stai facendo? La gente chiusa nella Torre ci ha chiamati… Cosa devo rispondere?

— Dammi ancora qualche minuto… Sto cercando di segare il bullone…

La voce femminile, calma ma autoritaria, che lo interruppe diede a Morgan un colpo tale che quasi lasciò andare la preziosa fibra. La voce era un po' soffocata dalla tuta, ma non importava. Conosceva sin troppo bene quelle parole, anche se erano passati mesi dall'ultima volta che le aveva udite.

— Dottor Morgan — disse CORA — per favore sedetevi a riposare per dieci minuti.

— Ti accontenti di cinque? — la pregò. — In questo momento ho parecchio da fare.

CORA non si degnò di rispondere. Esistevano apparecchi in grado di sostenere una conversazione semplice, ma il suo non era di quel tipo.

Morgan tenne fede alla promessa: respirò a fondo, con regolarità, per cinque minuti pieni. Poi si rimise a segare. Tirava il filo avanti e indietro, avanti e indietro, accucciato sopra la griglia e sopra la Terra lontana quattrocento chilometri. Sentiva una resistenza considerevole, per cui doveva per forza fare qualche progresso con quell'acciaio durissimo. Ma era impossibile capire l'entità del progresso.

— Dottor Morgan — disse CORA — dovete proprio coricarvi per mezz'ora.

Morgan bestemmiò fra sé.

— Ti sbagli, dolce signora — ribatté. — Mi sento benissimo. — Ma mentiva: CORA sapeva del dolore al suo petto…

— Con chi diavolo stai parlando, Van? — chiese Kingsley.

— È solo un angelo di passaggio — rispose Morgan. — Scusa se non ho spento il microfono. Mi riposo ancora un po'.

— Che progressi stai facendo?

— Non so. Però sono certo che ormai il taglio è piuttosto profondo. "Deve" esserlo…

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