Robert Heinlein - Stella doppia

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— Non vedo nessuna difficoltà nella cosa, Bill. — Pensavo che se fossi riuscito a ingannare i marziani per tutta la durata della cerimonia, sarei riuscito a incantare facilmente anche un branco di giornalisti umani, per tutto il tempo richiesto. Ormai m’ero perfettamente impadronito del tono e del frasario di Bonforte, e inoltre conoscevo le sue idee politiche quel tanto che bastava per azzardare qualche dichiarazione vaga.

Clifton però era preoccupato. Prima che potesse parlare si udì la campanella della nave, e una voce chiamò dall’altoparlante: — Il capitano è richiesto in sala comando. Quattro minuti.

In fretta, Dak disse: — Mettetevi d’accordo fra voi. Io devo andare a mettere questa nave sul giusto binario… e su in cabina c’è solo quel pivello di Epstein. — E scappò via come il fulmine.

— Ehi, capitano! — chiamò Corpsman. — Volevo dirle che…

Gli corse dietro e uscì dalla porta senza neppure voltarsi a salutare.

Roger Clifton andò a chiudere la porta che Corpsman aveva lasciato aperta, poi mi tornò accanto e mi chiese con calma: — Davvero vuol correre il rischio di partecipare alla conferenza stampa?

— Sta a lei decidere. Io, comunque, non ho nulla in contrario.

— Uhm… Va bene, rischiamo, allora. Però esigiamo domande scritte. Bill preparerà le risposte e le controllerò io stesso prima che lei le legga alla stampa.

— Benissimo — replicai. — Se lei riesce a trovare un modo per farmele avere con una decina di minuti d’anticipo, non ci sarà nessuna difficoltà. Sono rapidissimo a imparare le cose a memoria.

Mi squadrò. — Sono disposto a crederci… Capo. Va bene, dirò a Penny di passarle le risposte subito dopo la cerimonia. Con la scusa di andare alla toletta un momento, lei potrà avere tutto il tempo necessario per studiarle.

— Mi pare che così possa andare bene.

— Sì, anch’io… Confesso che dopo averla vista, mi sento molto, molto meglio. Posso fare qualcosa per lei?

— No, grazie, Rog… cioè, sì. Si sa mica niente di… di lui ?

— Come? Ah… be’, sì e no. È sempre a Goddard City, di questo ne siamo sicuri. Non l’hanno portato via da Marte, e neppure l’hanno trasferito in qualche altra zona del pianeta. Almeno questo siamo riusciti a impedirlo, sempre che ne avessero l’intenzione.

— Ma come!? Goddard City non è molto grande. Meno di centomila abitanti, se non sbaglio. Come mai non l’avete trovato? C’è qualche difficoltà?

— La difficoltà è una sola: non osiamo ammettere che lei, cioè lui , sia sparito. Appena messa a posto questa faccenda dell’adozione, lei si nasconderà e noi annunceremo che il Capo è scomparso, che l’hanno rapito… come se il rapimento fosse avvenuto solo allora. Faremo setacciare la città palmo a palmo. Le supreme cariche cittadine sono ora tenute da funzionari del Partito dell’umanità, ma ci aiuteranno… dopo la cerimonia. Sarà la cooperazione più volenterosa che si sia mai vista, perché avranno una fretta infernale di ritrovare Bonforte prima che tutto il Nido di Kkkahgral cali su di loro e gli distrugga l’intera città sotto gli occhi.

— Oh, ogni volta imparo qualcosa di nuovo sulla psicologia e sull’etica dei marziani.

— A chi lo dice!

— Rog. Uhm… Mi dica un po’, cosa le fa credere che lui sia ancora vivo? Non farebbero più in fretta… e non correrebbero meno rischi… ammazzandolo, semplicemente? — Mi veniva in mente un certo ricordo spiacevole: la facilità con cui ci si poteva sbarazzare di un cadavere ingombrante, ammesso di non avere scrupoli.

— Sì, credo di capire la sua obiezione. Ma anche questo va collegato al concetto marziano di "correttezza". — Usò la parola marziana. — La morte è l’unica giustificazione accettabile per non avere rispettato un obbligo. Se lo ammazzassero, semplicemente, i marziani lo adotterebbero dopo la morte, e poi l’intero nido, e magari tutti gli altri nidi di Marte, si solleverebbero per vendicarlo. Ai marziani non importa nulla se tutta la razza umana muore, o se viene uccisa, ma uccidere un uomo apposta per impedirgli di partecipare alla cerimonia dell’adozione è un altro paio di maniche. Si tratta sempre di obblighi e di correttezza: per taluni aspetti, la reazione di un marziano a una data situazione è una cosa automatica, fa pensare a una reazione istintiva. Non lo è, naturalmente, perché i marziani sono maledettamente intelligenti. Però ogni tanto fanno le cose più impensate. — Corrugò la fronte e disse: — A volte vorrei non avere mai lasciato il Sussex.

La campanella dell’astronave pose fine alla conversazione, costringendoci a sdraiarci di corsa sulle cuccette. Dak era arrivato al punto voluto; il traghetto per Goddard City era già in orbita ad aspettarci quando entrammo in caduta libera. Ci trasferimmo su di esso tutt’e cinque, occupando ogni cuccetta disponibile: anche questo era stato previsto, perché il Commissario Residente avrebbe desiderato venire su per salutarmi, ma ne era stato dissuaso da una comunicazione di Dak che lo avvertiva che, appunto, non c’era posto.

Cercai di guardare la superficie marziana mentre scendevamo sul pianeta, perché l’avevo vista solo di sfuggita dalla cabina di controllo della Tom Paine : si presumeva che io fossi già stato su Marte diverse volte, e perciò non potevo mostrare la normale curiosità di qualsiasi turista. Non riuscii però a vedere molto: il pilota del traghetto non voltò il razzo, per farci vedere il panorama, fino al momento dell’atterraggio, e nella parte finale del volo io fui troppo occupato a infilarmi la maschera dell’aria per guardare.

Quella fastidiosa maschera marziana per poco non ci diede il colpo di grazia. Io non avevo mai avuto occasione d’impararne l’uso: Dak non ci aveva pensato e io non avevo ritenuto che fosse difficile da usare. In altre occasioni avevo già portato respiratori spaziali e respiratori subacquei, e pensavo che anche questa sarebbe stata come tutte le altre. Invece era una cosa totalmente diversa. Il modello favorito di Bonforte era del tipo che lasciava libera la bocca, una "Vento dolce" della Mitsubushi, pressurizzata direttamente sul naso. Comprendeva un morsetto e due tamponi per chiudere il naso, e due tubicini, uno per ciascuna narice, che poi passavano dietro gli orecchi e si collegavano a un piccolo compressore che aderiva alla nuca. Sono d’accordo che sia un dispositivo molto ingegnoso, una volta che uno lo sappia usare nel modo corretto; esso infatti consente di parlare, di mangiare, di bere eccetera, senza necessità di sfilarselo. Ma a me diede un fastidio irragionevole, come andare dal dentista.

La difficoltà consiste in questo: occorre esercitare un controllo volontario sui muscoli che chiudono il fondo della bocca, altrimenti si lascia scappare l’aria e si fischia come una vaporiera: quella maledetta maschera pompa nei polmoni aria sotto pressione. Per fortuna il pilota, appena ci fummo tutti infilati le maschere, portò la cabina alla pressione marziana, e io potei dedicarmi per una ventina di minuti ad apprenderne l’uso. Ma per qualche tempo temetti che tutta la nostra messinscena sarebbe fallita miseramente, scivolando su un piccolo, stupido particolare meccanico. Mi sforzai di convincermi che avevo già indossato la maschera centinaia di volte, che per me era una cosa altrettanto familiare e normale come lo spazzolino da denti, e finii col crederci anch’io.

Dak era riuscito a evitarmi le chiacchiere col Commissario per l’ora di volo dall’astronave al pianeta, ma non poté impedire che venisse ad accogliermi allo spazioporto. Il poco tempo disponibile m’impedì d’incontrare altre persone, perché dovevo affrettarmi a partire per la città marziana. Era logico, anche se sembrava strano: sarei stato più al sicuro tra i marziani che tra i terrestri come me. Ancor più strano, era il fatto di trovarmi su Marte.

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