Poi uscirono. L’umore di lei già in discesa. Si accorse che diventava cupa, cominciava a ritrarsi. Sembrava una cosa impossibile mantenerla felice per più di due ore di seguito. Cercò di ignorare il suo umore nero, sperando che svanisse. Una giornata così bella. La luce dorata del sole che si riversava dal Bronx.
— Dove vuoi andare, Lissa? — Lei non rispose. Sembrava quasi che non l’avesse sentito. Chiese ancora.
— Voci — mormorò lei. — Queste fottute voci. Sono una Giovanna d’Arco nella merda. — Lissa? Lissa? Voltandosi verso di lui, il tormento negli occhi colore oceano. — Un fiume di fango — disse. — Spesso fango marrone che si accumula sulla mia testa. Presto mi uscirà dalle orecchie. Un delta da ciascuna parte.
— È una giornata così bella, Lissa. Tutta la città è nostra.
— Andiamo dove vuoi tu — disse lei.
Dietro suo suggerimento, andarono allo zoo del Bronx. Passeggiarono mano nella mano accanto ai vari habitat, abilmente simulati. Era difficile credere che quei leoni davvero non avessero modo di saltare il fossato. E cosa impediva a quegli uccelli di volare via dalla loro cupola? Era completamente aperta da una parte, Cristo! Ma naturalmente, c’erano dei sistemi per controllare la pressione dell’aria e il flusso ionico. Lo zoo era affollato. Famiglie, amanti, ragazzini. La maggior parte aveva un aspetto più buffo della popolazione al di là dei fossati. Le grida roche degli animali. Nasi umidi che si torcevano, occhi tristi.
Una gabbia su tre circa era segnata con una stella nera, che indicava come la specie fosse estinta allo stato naturale. Rinoceronte bianco. Ippopotamo pigmeo. Giraffa reticolata. Bisonte europeo. Rinoceronte nero. Tapiro sudamericano. Wombat. Orice arabico. Tigre del Caspio. Canguro rosso. Bandicut. Bue muschiato. Orso grigio. Tante specie sparite. Altri cento anni, e resteranno solo cani, gatti, pecore e mucche. Ma naturalmente gli africani avevano avuto bisogno di carne durante gli anni della carestia, prima della Correzione Demografica. E i sudamericani, e gli asiatici. Tutti quei bambini, tutte quelle bocche affamate, e alla fine non era servito a niente, erano arrivati a mangiarsi fra loro dopo che gli animali erano spariti. Adesso gli zoo erano l’ultimo rifugio. E per alcuni era troppo tardi.
Macy ricordava una gita con suo padre, quando aveva dieci o dodici anni, allo zoo di San Diego, a vedere il panda gigante. "Questo è l’ultimo che esista al mondo, figliolo. Portato via clandestinamente dalla Cina comunista prima dell’esplosione." Un grosso orsacchiotto a due colori, seduto nella gabbia. Non esistevano più panda giganti da nessuna parte, adesso. Qualcuno imbalsamato, come ricordo. Suo padre? Lo zoo di San Diego? Avevano davvero un panda gigante laggiù, allora? Le oscillazioni della memoria. Senza dubbio non era mai accaduto. Forse non era mai esistito un animale del genere.
Lissa disse: — Posso sentire le loro menti. Degli animali.
— Davvero?
— Non mi ero mai accorta di riuscirci. Non ero mai stata allo zoo prima.
Lui era sul chi vive, pronto a portarla di corsa alla fermata del tubo se l’impatto fosse stato troppo forte. Non fu necessario. Lissa era piena di gioia, estatica, nello spiazzo accanto alla vasca delle foche, mentre assorbiva i muggiti i belati i latrati gli ululati di cento specie. — Forse posso trasmetterti qualcosa di quello che ricevo — disse, e gli prese le mani nelle sue, aggrottò la fronte, lo fissò negli occhi, tanto che i passanti annuirono e sorrisero alla vista del vero amore che si esprimeva in mezzo alle foche e alle tigri, ma lui non riuscì a cogliere nemmeno un brandello di quello che Lissa gli trasmetteva.
Così lei glielo descrisse, a momenti alterni, ogni volta che poteva dedicargli un momento dalle sue contemplazioni. I pensieri alti, striduli e gutturali della giraffa. Il cupo rimuginare del rinoceronte. Le emissioni complesse, tetre e amare, dell’elefante africano, quello dalle grandi orecchie, un Kierkegaard della zoologia. Il cinguettio scintillante degli scimpanzé. Le impertinenti esplosioni mentali del procione lavatore. Le tartarughe delle Galapagos meditavano sull’eternità; l’orso bruno era sorprendentemente sensuale; i pinguini facevano sogni ghiacciati.
— Ti stai inventando tutto? — le chiese, e lei gli rise in faccia, come un S. Tommaso d’Aquino accusato di inventarsi la trinità. Un’ora dopo, si era completamente spenta. Pranzarono con alga-burger e Lenin soda, e presero il marciapiede mobile fino all’uscita, Lissa che ridacchiava, stupidamente, ubriaca per le sue bestie. — L’orangutan — disse — potrei dirti esattamente come voterebbe alle prossime elezioni. E se solo potessi farti sentire lo gnu! Oh, cazzo, lo gnu!
Ma prima di sera era tornata di umore nero. Il pomeriggio andarono a Manhattan, girando intorno agli edifici bruciati, raggiungendo poi i nuovi eleganti quartieri residenziali, e lui cercò di interessarla ai saloni di divertimento, alle fumerie, alle piscine eccetera; ma lei era indifferente, lontana. Cenarono in un ristorante cinese su un molo dell’Hudson, e lei piluccò il cibo svogliatamente, lasciandone buona parte nel piatto, il cameriere che ridacchiava. Una serata tranquilla a casa. Non abbiamo amici, si rese conto Macy. Suonarono Bach e fumarono molto.
Appena prima di andare a letto, Hamlin parve stiracchiarsi e sbadigliare dentro di lui. O era solo un’illusione? Un pessimo rapporto sessuale, quella sera: Lissa era alquanto giù, lui non molto meglio, tutti e due goffi e non troppo convinti mentre si abbracciavano nel letto. Cercò di penetrarla, e lei era secca. Perseverò, sa solo Dio perché. Finalmente un po’ di lubrificazione. Ma non molto entusiasmo, da parte di lei. Come scopare un robot; fu tentato di piantare lì a metà, ma pensò che sarebbe stato poco educato, e si costrinse a un orgasmo solitario e insoddisfacente. In seguito, fece alcuni brutti sogni, ma niente che non avesse già avuto.
Sabato fu un fallimento. Lissa vuota, assente. Una giornata che non finiva mai. Domenica molto meglio. Gli si gettò addosso al sorgere del sole, cavalcandolo, abbassandosi fino a farsi penetrare. Buon giorno! Buon giorno! Buon giorno! Su e giù, su e giù. Seni che dondolavano sopra di lui. Le dita sorprese di Macy che circondavano i globi lisci e freddi del suo sedere. Dopo di che, lei preparò una abbondante colazione. Allegra e saltellante come un’adolescente; forse una finzione: cercando con tutte le sue forze di essere una buona compagna, sospettò lui. Dopo quella giornata schifosa che mi ha fatto passare ieri. Uno a uno.
— Dove andiamo? — chiese lei.
— Al Museo di Arte Moderna — suggerì Macy. — Ci sono degli Hamlin, no?
— Sì, cinque o sei. Ma credi davvero che sia una cosa saggia da fare? È rimasto molto tranquillo negli ultimi due giorni, ma la vista delle sue opere potrebbe risvegliarlo.
— È esattamente quello che voglio scoprire — le disse.
Andarono. Il museo, si scoprì, aveva sette Hamlin: due pezzi grandi, quasi impressionanti come l’ Antigone , e cinque più piccoli. Erano esposti tutti nella stessa sala: quattro raggruppati in un angolo, e tre contro la parete opposta, il che diede a Macy l’occasione di una prova critica: la presenza di tante opere di Nat Hamlin avrebbe risvegliato l’artista in letargo, mediante qualche sorta di leva psichica?
Coraggiosamente, Macy si piazzò fra i due gruppi, dove sarebbe stato esposto al massimo di influenza. Bene, Hamlin? Dove sei? Ma benché avvertisse qualche confuso contorcimento subliminale, non c’era nient’altro che indicasse la presenza di Hamlin dentro di lui. Studiò attentamente le sculture. Il conoscitore che faceva le sue superiori osservazioni.
Soltanto poche settimane prima, nell’ufficio di Harold Griswold, la vista del pezzo di Hamlin l’aveva tramortito, mentre adesso ascoltava con orecchio critico le risonanze, osservava il lieve mutare dei contorni, insomma faceva tutti i suoi apprezzamenti con grande disinvoltura.
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