Robert Silverberg - Vacanze nel deserto

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Una superstrada. Una macchina. E dollari per le vacanze. Quattro studenti universitari attraversano diagonalmente l’America, fino al deserto dell’Arizona. La scarrozzata è anche una fuga dal rock, dalla droga, dall’astrologia... Qualcosa di molto più eccitante aspetta i quattro boys: un miraggio di immortalità che il Libro dei Teschi, un antico manoscritto casualmente ritrovato, offre a chi accetta i Diciotto Misteri dell’Iniziazione. Purtroppo, la vita eterna non sarà elargita a tutti: due ragazzi dovranno morire affinche gli altri vivano. I primi dubbi: esiste davvero, laggiù nel deserto, la casa dell’eterna giovinezza?... All’avventura esoterica, oggi molto attuale nei "colleges", si ispira «Vacanze nel deserto», un eccezionale romanzo "fantastico" che appaga il nostro bisogno di mistero: con questo libro Silverberg dà una risposta nuova, abbagliante e terribile.

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E poi di nuovo Eli, di nuovo la traiettoria dell’antico oggetto tondeggiante, di nuovo lo schianto. Stop. Fotogramma fermo. Poeticità della conclusione.

Incespico e sono sempre lì lì per cadere: ma la bellezza di quelle immagini mi sostiene, riversandomi energie fresche nelle articolazioni scricchiolanti e nei muscoli indolenziti, cosicché io rimango ritto mentre arranco da bravo beccamorto sul terreno alcalino che si sbriciola sotto i miei passi vacillanti. Come, vivendo, moriamo giorno per giorno, così, morendo, vivremo per sempre.

— Siamo arrivati — annuncia Fra Antonio.

È un cimitero, questo? Non vedo tumuli, lapidi, niente. Solo un campo vuoto disseminato a casaccio di quelle basse e grigie piante dalle foglie coriacee che sono tipiche delle regioni aride.

Allora osservo più attentamente, con quel singolare affinamento delle percezioni indotto dalla spossatezza, e scorgo certe irregolarità del terreno: qui un’area che sembra affondata di qualche centimetro, là un’altra che appare sopraelevata rispetto al resto, come se in questo campo fosse stato fatto davvero qualche intervento.

Con grande cautela deponiamo a terra Timothy. Scaricato il suo corpo, il mio sembra innalzarsi nell’aria per la reazione di sollievo: quasi quasi giurerei che i piedi mi si sono staccati effettivamente dal suolo. Le gambe mi tremano, le braccia si alzano di conserva all’altezza delle spalle.

È un riposo di breve durata. Fra Franz ci porge gli attrezzi e tutt’e tre cominciamo a scavare la fossa. Lui solo ci dà una mano: gli altri tre frati stanno in disparte, assenti, immobili come statue votive.

Il suolo è friabile e molle: forse tutta la sua coesione è stata disintegrata da dieci milioni di anni di cottura sotto il sole dell’Arizona. Scaviamo come schiavi, come formiche, come macchine, affonda e solleva, affonda e solleva, prima praticando tre buche individuali e poi raccordandole insieme. Di tanto in tanto uno di noi invade l’area di lavoro del vicino: a un certo punto, per poco Eli non m’infilza col suo piccone il piede nudo. Comunque il lavoro procede: alla fine, davanti a noi si apre una fossa malsagomata delle dimensioni approssimative di due metri per novanta per uno abbondante di profondità. — Può bastare — dice Fra Franz.

Boccheggianti, lucidi di sudore, intontiti, lasciamo cadere gli attrezzi e facciamo un passo indietro. Io sono allo stremo delle forze, e riesco a malapena a rimanere in piedi. Sento che mi arriva un attacco di bolsaggine: riesco a dominarlo e lo converto assurdamente in una serie di singhiozzi.

Fra Antonio dice: — Mettete nella fossa il morto.

Così com’è? Niente bara niente protezione? La terra a contatto del nudo volto? Polvere alla polvere? Sembra proprio di sì.

Diamo fondo alle ultime particelle di energia e solleviamo Timothy, portandolo sopra lo scavo e calandolo giù lentamente. Timothy giace sulla schiena, il cranio fracassato che poggia sulla terra soffice, gli occhi spalancati che ci fissano (con uno sguardo di stupore?). Eli allunga una mano e gli chiude gli occhi; poi gli gira leggermente la testa da una parte. Una posizione più simile a quella del sonno. Una maniera più comoda per trascorrere il riposo eterno.

Adesso i quattro Custodi si dispongono agli angoli della fossa. Fra Miklos, Fra Franz e Fra Javier accostano le mani al ciondolo e chinano il capo. Fra Antonio, con lo sguardo fisso davanti a sé, recita un breve servizio funebre in quella lingua fluida e incomprensibile che i frati usano con le sacerdotesse (la lingua degli Aztechi?, la lingua di Atlantide? la madrelingua dell’uomo di Cro-magnon?); poi, passando al latino per le ultime frasi, aggiunge qualcosa che mi sembra (come mi confermerà Eli) il testo del Nono Mistero. Infine fa segno a me e a Eli di riempire la fossa. Noi impugniamo i badili e gettiamo giù palate di terra.

Addio, Timothy! Addio, giovane rampollo di famiglia aristocratica, frutto di otto generazioni di sangue puro! Chi avrà i tuoi quattrini, chi porterà avanti il nome del casato? Polvere alla polvere.

Un sottile strato di sabbia dell’Arizona ricopre già le possenti spoglie. Continuiamo come automi a gettare terra, e Timothy scompare alla vista. Come era stato decretato fin dall’inizio. Come fu scritto diecimila anni fa nel Libro dei Teschi.

Quando la fossa è colmata e la terra è stata pigiata ben bene, Fra Antonio dice: — Tutte le normali attività sono sospese. Passeremo la giornata in meditazione, senza mangiare, dedicandoci alla contemplazione dei Misteri.

Ma c’è dell’altro lavoro che ci attende, prima che le nostre contemplazioni possano cominciare.

Torniamo nella Casa dei Teschi, per fare anzitutto un bagno, e scopriamo Fra Leone e Fra Bernardo nel corridoio del dormitorio, fuori della camera di Oliver. Hanno il volto che sembra una maschera. Fanno segno verso l’interno.

Oliver giace sul letto, a faccia in su. Ha rubato un coltello in cucina: da quel grande chirurgo che sarebbe stato, ha compiuto su di sé un lavoro straordinario, gola e ventre, senza risparmiare neppure il traditore fra le cosce. Le incisioni, profonde, sono state praticate con mano ferma: disciplinato fino alla fine, l’inflessibile Oliver si è macellato con la sua caratteristica fedeltà alla metodologia. Io non avrei potuto portare a termine un progetto simile (supposto che l’avessi iniziato), così come non posso camminare su un raggio di luna; ma Oliver ha sempre avuto una forza di concentrazione fuori del comune.

Osserviamo la sua opera in una maniera stranamente spassionata. Io sono un tipo piuttosto schifiltoso, e così pure Eli: ma in questo giorno dell’adempimento del Nono Mistero, ogni debolezza di tal genere mi viene tolta.

— C’è fra te — dice Fra Antonio — uno che ha rinunciato all’eternità in favore dei suoi fratelli della figura quadrilatera, in modo che loro possano giungere a comprendere il significato dell’abnegazione. — Già.

E così arranchiamo una seconda volta fino al luogo di sepoltura. E dopo, in espiazione dei miei peccati, ripulisco dalle spesse chiazze di sangue coagulato la stanza che è stata di Oliver. E infine faccio il bagno e mi ritiro da solo nella mia camera, meditando sui Misteri del Teschio.

42

Eli

L’estate grava sulla regione. Il cielo tremola per il calore sbalorditivo. Tutto sembra predeterminato, preordinato a puntino. Timothy riposa in pace. Oliver riposa in pace. Rimaniamo Ned e io.

In questi mesi ci siamo irrobustiti e il sole ci ha fortemente abbronzato la pelle. Viviamo in una specie di stato sonnambolico, fluendo serenamente lungo il nostro programma quotidiano di lavori e riti. Non siamo ancora frati completi, ma il nostro periodo d’iniziazione si approssima alla fine. Due settimane dopo quel giorno di seppellimenti sono riuscito a eseguire il rituale delle tre donne, e da allora non ho più incontrato difficoltà a mettere in pratica le lezioni impartite dai frati.

I giorni si fondono insieme. Qui siamo fuori del tempo. Era aprile, quando siamo arrivati? Di che anno? E che anno è, questo? Davvero, viviamo in uno stato sonnambolico, in un sogno da svegli.

Talvolta ho la sensazione che Oliver e Timothy siano personaggi di un altro sogno, un sogno da me fatto tanto tempo addietro. Ho già cominciato a dimenticare i particolari dei loro volti. Capelli biondi, sì, occhi azzurri, certo; ma il resto? Che forma avevano i rispettivi nasi? E la linea dei menti? I loro volti svaniscono.

Timothy e Oliver se ne sono andati, e rimaniamo Ned e io. Ricordo ancora la voce di Timothy: calda, armoniosa, educata splendidamente modulata, con timbro di basso e accento aristocratico lievemente nasale. E quella di Oliver: forte, limpida, da tenore, timbro saldo e tagliente, accento neutro come appunto la voce degli americani delle praterie.

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