Robert Silverberg - Vacanze nel deserto

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Una superstrada. Una macchina. E dollari per le vacanze. Quattro studenti universitari attraversano diagonalmente l’America, fino al deserto dell’Arizona. La scarrozzata è anche una fuga dal rock, dalla droga, dall’astrologia... Qualcosa di molto più eccitante aspetta i quattro boys: un miraggio di immortalità che il Libro dei Teschi, un antico manoscritto casualmente ritrovato, offre a chi accetta i Diciotto Misteri dell’Iniziazione. Purtroppo, la vita eterna non sarà elargita a tutti: due ragazzi dovranno morire affinche gli altri vivano. I primi dubbi: esiste davvero, laggiù nel deserto, la casa dell’eterna giovinezza?... All’avventura esoterica, oggi molto attuale nei "colleges", si ispira «Vacanze nel deserto», un eccezionale romanzo "fantastico" che appaga il nostro bisogno di mistero: con questo libro Silverberg dà una risposta nuova, abbagliante e terribile.

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Eli, con un’aria assente annuisce alle mie parole. Poi esce definitivamente dalla mia camera.

Io penso al Nono Mistero, mi domando se vedrò mai più Eli vivo.

Mi metto a camminare su e giù per la stanza. Cammino e cammino a lungo, covando turpi propositi.

Infine Satana m’infiamma e io mi precipito da Oliver.

39

Oliver

— So tutto — dice Ned. — Tutto quanto. — Mi sorride con aria vergognosa. Sguardo dolce, da vacca, fisso nel mio. — Non devi aver paura di essere quello che sei, Oliver. Non devi. Non capisci quant’è importante conoscere se stessi, penetrare nella propria testa fin dove è possibile giungere e quindi agire in base a quello che vi si è trovato? E invece c’è un sacco di gente che innalza stupidi muri fra sé e il proprio Io, muri fatti di inutili astrazioni. Un sacco di non puoi qui e non puoi là. Perché? Di che utilità è tutto questo?

Il volto gli brilla. Un tentatore, un diavolo. Eli gli deve aver spifferato ogni cosa. Karl e io, io e Karl. Vorrei spaccargli la faccia, a Eli.

Ned mi gira intorno sogghignando, con movenze feline, come un pugile in procinto di balzare all’attacco. Tiene la voce bassa, quasi su un tono monocorde.

— Dài, Ol. Lasciati andare. LuAnn non lo saprà. Io sono muto come una tomba. Andiamo, Ol, facciamolo, facciamolo ! Non siamo mica degli estranei. Abbiamo tenuto le distanze per troppo tempo. C’è il tuo Io che vuole venir fuori, Oliver, il tuo vero Io lì dentro di te, e questo è il momento buono perché tu lo lasci uscire. Vuoi, Ol? Vuoi? Adesso? Ecco qui la tua occasione. Eccomi qui.

E mi si accosta. Alza lo sguardo verso il mio. Basso com’è, mi arriva appena al petto. I suoi polpastrelli scorrono leggeri lungo il mio avambraccio.

— No — dico, scuotendo forte la testa. — Non toccarmi, Ned.

Lui continua a sorridere. A vellicarmi la pelle. — Non respingermi — bisbiglia. — Non rifiutarmi. Se mi rifiuti rifiuti te stesso, rifiuti di accettare la realtà della tua esistenza; e questo non è possibile, Oliver, non è vero? Non è possibile, se vuoi vivere per sempre. Io sono come una stazione dalla quale devi transitare nel corso del tuo viaggio. Lo sappiamo tutt’e due da vari anni; lo sappiamo molto bene. Adesso la cosa viene alla superficie, Ol. Tutto quanto viene alla superficie, ogni cosa converge verso questo istante, Ol, verso questo luogo, questa stanza, questa notte. Sì? Sì? Dimmi di sì! Oliver! Oliver, dimmi di sì!

40

Eli

Non so più chi sono o dove mi trovo. Sono in cimbali, in trance , in coma. Percorro — come se fossi il fantasma di me stesso — i gelidi corridoi della Casa dei Teschi, invasi dalle tenebre della notte. I teschi di pietra guardano giù verso di me, dalle pareti, e sogghignano. Io sogghigno di rimando Ammicco, getto baci.

Guardo la fila di massicce porte di quercia tutte chiuse, che retrocede all’infinito, e misteriosi nomi sfrecciano nella mia mente: questa è la stanza di Timothy, questa è di Ned, questa è di Oliver. Chi sono, costoro? Questa è la stanza di Steinfeld. Chi? Eli Steinfeld. Chi? E-li-Ste-in-feld. Una serie di suoni incomprensibili. Un insieme di sillabe prive di significato. E. Li. Stein. Feld.

Andiamo avanti! Questa stanza è di Fra Antonio, e in questa si può trovare Fra Bernardo, e qui Fra Javier, e qui Fra Claudio, e qui Fra Miklos, e poi Fra Maurizio, e Fra Leone, e Fra Tizio e Fra Caio, e chi sono questi frati, e cosa significano i loro nomi?

Altre porte ancora. Qui devono dormire le donne. Apro una porta a caso. Quattro lettini, quattro donne formose, nude, giacenti scomposte in un arruffio di lenzuola sgualcite. Non rimane nascosto nulla. Cosce, natiche, seni, fianchi. Volti inerti di dormienti. Potrei entrare nella stanza, entrare in quei corpi, possederli tutti e quattro, uno alla volta. Ma non lo faccio.

Avanti. Avanti, fino a una stanza senza soffitto, dalla quale si vedono le stelle luccicanti che brillano attraverso la nuda travatura. Più freddo, qui. Teschi sulle pareti. Una fontana, zampillante. Passo per le stanze pubbliche. Qui veniamo istruiti sui Diciotto Misteri. Qui eseguiamo i sacri esercizi ginnici. E qui è dove mangiamo i nostri cibi speciali. E qui… quest’apertura nel pavimento, questo omphalos , questo è l’ombelico dell’universo, l’accesso al Pozzo.

Devo andare giù. Giù, dunque. Odore di muffa. Niente luce, qui. La pendenza diminuisce: questo non è mica un abisso ma soltanto una galleria, e ora ricordo. Devo esserci già passato, in direzione opposta. Adesso una barriera, una lastra di pietra. Cede, cede! La galleria continua. Avanti, avanti, avanti. Tromboni e corni, un coro di bassi, le parole del Requiem che alitano nell’aria: Rex tremendae majestatis, qui salvandos salvas gratis, salva me, fons pietatis. Fuori!

Sbuco nello spiazzo dal quale sono entrato per la prima volta nella Casa dei Teschi. Davanti a me, il deserto spoglio. Dietro di me, la Casa dei Teschi. Sopra di me le stelle, la luna piena, la volta del firmamento. E adesso?

Attraverso a passi incerti la radura, supero la fila di teschi di pietra che la cinge, grandi come palloni da pallacanestro, imbocco lo stretto viottolo che si spinge nel deserto. Non ho in mente nessuna meta precisa. Mi lascio portare dai miei piedi. Cammino per ore o giorni o settimane.

Poi, sulla mia destra, scorgo un grande masso, di superficie ruvida, di colore scuro: il segnavia, l’enorme teschio di pietra. Alla luce della luna i suoi lineamenti incisi spiccano duri e netti, come nere cavità che contengano polle di notte.

Fratelli, meditiamo qui. Contempliamo il teschio che giace sotto il volto.

E così m’inginocchio. E così, utilizzando le tecniche insegnatemi dal pio Fra Antonio, estrofletto l’anima fino a inglobare il grande teschio di pietra, e mi purifico da tutta la vulnerabilità alla morte.

Teschio, io ti conosco! Teschio, io non ti temo! Teschio, sotto la pelle io porto tuo fratello!

E rido in faccia al teschio, e mi diverto a trasformarlo: prima in un uovo bianco e liscio, poi in un globo di alabastro rosa venato e screziato d’oro, infine in una sfera di cristallo di cui sondo le profondità.

La sfera mi mostra le torri dorate della perduta Atlantide. Mi mostra uomini irsuti coperti di pelli lanose, che saltellano bizzarramente alla luce delle torce davanti a tori dipinti sulle pareti di una caverna piena di fumo. Mi mostra Oliver che giace intontito e stremato fra le braccia di Ned.

Trasformo la sfera in un teschio scolpito alla buona in un masso di pietra nera; poi, soddisfatto, me ne torno su per il viottolo spinoso verso la Casa dei Teschi.

Non entro nel passaggio sotterraneo, ma invece proseguo intorno all’edificio e lungo la facciata dell’interminabile ala nella quale i frati c’impartiscono i loro insegnamenti; infine giungo al termine dell’edificio stesso, dove comincia il sentiero che conduce ai campi coltivati.

Mi metto a cercare erbacce alla luce della luna, ma non ne trovo. Accarezzo le pianticelle di pepe. Benedico le bacche e le radici. Questo è il cibo sacro, questo è il cibo puro, questo è il cibo che dà la vita eterna. M’inginocchio tra i filari, sul terreno freddo e bagnato e fangoso, e prego che la remissione venga estesa anche a me per i miei peccati.

Poi mi reco sull’altura a ovest della Casa dei Teschi. La salgo, mi tolgo i calzoni, e compio — nudo nella notte — i sacri esercizi respiratori: mi accovaccio, inspiro le tenebre, le mescolo col respiro interiore, ne traggo energia, la convoglio ai miei organi vitali.

Il mio corpo si dissolve. Divento senza massa né peso. Mi libro, danzando, su una colonna d’aria. Trattengo il fiato per secoli. Levito per eoni. Sfioro l’autentico stato di grazia.

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