Robert Silverberg - L'uomo stocastico

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Stocastico: voce dotta, dal greco stochestikos, congetturale, dovuto al caso, aleatorio. Questo dice il dizionario. Ma Robert Silverberg dice di più. Dice che uno specialista di indagini conoscitive e di statistiche previsionali, un professionista della congettura, un mago del calcolo delle probabilità, può tutto a un tratto scoprire la vera natura del suo talento. E questo talento non ha niente a che fare con la scienza dei numeri, col buon senso, con il fiuto commerciale e politico. È un dono naturale che, coltivato opportunamente, permette all’uomo stocastico di vedere In come in una sfera di cristallo, il futuro. Chi vincerà la terza corsa all’ippodromo? Chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti? Come e quando arriverà la nostra morte? Mai come in questo romanzo l’antico sogno dell’umanità è stato presentato con tanta acutezza psicologica, con un casi vivo senso di ciò che potrebbe essere, in concreto, la vita di un autentico veggente.

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Alla fine, decisi che ero rimasto segregato nei boschi abbastanza a lungo da poter tornare a City Hall ed essere accolto nuovamente come un consigliere equilibrato e degno di fiducia; tornai, quindi, a New York, al mio polveroso e trascurato appartamento nella 63 aStrada. Tutto era all’incirca come prima. I giorni erano più corti, ora che novembre era arrivato, e la nebbia d’autunno aveva ceduto alle prime sferzanti bufere dell’inverno in arrivo, che spazzavano la città da fiume a fiume. Il sindaco, mirabile dictu , era stato in Louisiana e, con enorme dispiacere dei redattori del “New York Times”, aveva approvato la costruzione della traballante Diga Plaquemines ed era stato fotografato mentre abbracciava il governatore Thibodaux: nella foto Quinn aveva un’espressione acida, ma decisa, e sorrideva come uno che abbraccia una pianta di cactus. Poi andai a Brooklyn a trovare Carvajal. Era passato un mese dall’ultima volta che l’avevo visto, ma mi sembrò molto invecchiato, terreo, avvizzito, occhi opachi e acquosi, mani tremanti. Non mi era più apparso così consunto e devastato dal tempo del nostro primo incontro, nell’ufficio di Lombroso, nel mese di marzo; tutta la forza che aveva acquistato nella primavera e nell’estate l’aveva abbandonato, tutta quella improvvisa vitalità che forse aveva tratto dal suo rapporto con me. Non forse; sicuramente. Infatti, attimo dopo attimo, quando ci sedemmo a parlare, il colore gli tornò e un lampo di energia ricomparve nei suoi lineamenti.

Gli raccontai cosa era successo sulla collina a Big Sur.

— Forse è un inizio. Alla fine dovrà pure cominciare. Perché non là?

— Se ho “visto”, però, che cosa significava quella visione? Quinn con vessilli? Quinn che arringa la folla?

— Come posso saperlo?

— Non avete mai “visto” qualche cosa del genere?

— L’ora di Quinn verrà dopo la mia morte — mi ricordò.

Nei suoi occhi c’era un leggero rimprovero. Sì: quest’uomo aveva meno di sei mesi di vita e lo sapeva, ne conosceva l’ora, il momento. Riprese: — Vi ricordate che aspetto aveva il Quinn più anziano che avete “visto”? Il colore dei capelli, i tratti del viso…

Tentai di ricordare. Quinn aveva adesso 38 anni. Quanti anni poteva avere l’uomo il cui viso riempiva il grande vessillo? Lo avevo subito riconosciuto come Quinn, quindi non poteva essere cambiato molto. Più paffuto di adesso?

I capelli biondi un po’ brizzolati alle tempie? Il sogghigno ferreo inciso più profondamente? Non sapevo. Non avevo notato. Solo una fantasia, forse. Un’allucinazione nata dalla fatica. Chiesi scusa a Carvajal; promisi di stare più attento la prossima volta, ammesso che ci fosse una prossima volta.

Lui mi assicurò che ci sarebbe stata. Avrei “visto”, mi disse fermamente, animandosi. Più stavamo insieme, più riacquistava vigore. Avrei “visto”, senza dubbio.

Poi cambiò argomento.

— Al lavoro. Nuove istruzioni per Quinn.

C’era solo un appunto questa volta: il sindaco doveva cominciare a cercarsi un nuovo assessore alla polizia, perché l’assessore Sudakis tra breve avrebbe dato le dimissioni. La cosa mi stupì. Sudakis era stato una delle scelte più felici di Quinn, energico e popolare, era l’unica persona del Dipartimento di Polizia di New York che, da un paio di generazioni a oggi, potesse essere considerato una specie di eroe, un uomo solido, fidato, incorruttibile, coraggioso. Dopo solo un anno e mezzo come capo del Dipartimento era considerato un’istituzione; sembrava che avesse sempre avuto quella carica e fosse destinato a conservarla per sempre. Aveva fatto un lavoro fantastico trasformando la Gestapo di Gottfried in una forza con il compito di mantenere la pace, e la sua opera non era ancora terminata: solo un paio di mesi prima io stesso avevo sentito Sudakis dire al sindaco che gli ci sarebbe voluto un altro anno e mezzo prima di terminare il ripulisti. Sudakis che dava le dimissioni? Non mi suonava.

— Quinn non ci crederà. Mi riderà in faccia.

Carvajal scrollò le spalle.

— Dopo il primo dell’anno Sudakis non sarà più assessore alla polizia. Il sindaco dovrebbe trovare in tempo un valido sostituto.

— Forse è così. Ma sembra così maledettamente improbabile. Sudakis è solido come la rocca di Gibilterra. Non posso andare dal sindaco e dirgli che sta per dare le dimissioni, anche se è vero. Già per la faccenda di Thibodaux e Ricciardi ho dovuto sostenere una lotta durissima e Mardikian ha voluto che mi curassi con un po’ di riposo. Se adesso arrivo con un’assurdità di questo genere, sono capaci di licenziarmi.

Carvajal continuò a fissarmi con aria imperturbabile e implacabile.

— Fornitemi, almeno, qualche dato che sostenga questa tesi. Perché Sudakis ha in mente di ritirarsi?

— Non so.

— Riuscirei a ottenere qualche indizio se parlassi con lui?

— Non so.

— Non sapete, non sapete! E neanche vi interessa, vero? Tutto quello che sapete è che medita di andarsene.

— Non so neppure quello, Lew. Tutto quello che posso dirvi è che darà le dimissioni. Forse neanche lui lo sa ancora.

— Ma bene! Benissimo! Avverto il sindaco, il sindaco manda a chiamare Sudakis, e Sudakis nega tutto, perché per ora non è ancora così.

— La realtà non si smentisce mai. Sudakis se ne andrà. Accadrà improvvisamente.

— Ma devo essere proprio io a dirlo a Quinn? Cosa succede se non gli dico niente? Se la realtà non si smentisce mai, Sudakis si dimetterà, sia che io parli sia che io non parli. Non è così? Non è vero?

— Volete che il sindaco sia colto alla sprovvista quando succederà?

— Molto meglio questo piuttosto che il sindaco pensi che sono pazzo.

— Avete paura di avvertire Quinn delle dimissioni di Sudakis?

— Sì.

— Cosa pensate che vi potrebbe succedere?

— Mi troverò in una posizione imbarazzante. Mi si chiederà di dare una giustificazione a qualcosa che per me non ha senso. Dovrò continuare a ripetere che è un’intuizione, solo un’intuizione, ma se Sudakis nega di avere intenzione di dimettersi, perderò la mia influenza su Quinn. Può anche darsi che perda il mio posto. È questo che volete?

— Non ho nessun desiderio di alcun genere.

— Senza contare che Quinn non permetterà che Sudakis si dimetta.

— Ne siete sicuro?

— Sicurissimo. Ne ha troppo bisogno. Non accetterà le sue dimissioni. Qualunque cosa possa dire, Sudakis conserverà il proprio posto, e allora cosa succede al mantenimento della realtà?

— Sudakis non conserverà il suo posto — ripeté Carvajal, indifferente.

Me ne andai e cominciai a riflettere.

Le obiezioni che avevo mosso a Carvajal sembravano logiche, ragionevoli, plausibili e inconfutabili. Non ero disposto a espormi tanto subito dopo il mio ritorno, mentre Mardikian era ancora scettico sul mio equilibrio mentale. D’altra parte, se qualche fatto imprevedibile avesse costretto Sudakis a dimettersi, io avrei trascurato il mio dovere non avvertendo il sindaco. In una città sempre sull’orlo del caos, anche una confusione di pochi giorni nei quadri dirigenziali del Dipartimento di Polizia poteva portare all’anarchia nelle strade, e la cosa di cui Quinn aveva certamente meno bisogno, come candidato potenziale alla presidenza, era un rigurgito, sia pur breve, del disordine che aveva devastato la città prima dell’amministrazione repressiva di Gottfried e nel breve interregno del debole DiLaurenzio. Inoltre, non avevo mai rifiutato di ubbidire alle direttive di Carvajal, e non volevo sfidarlo ora. Poco alla volta, il concetto dell’immutabilità della realtà era diventato parte di me; senza rendermene conto avevo accettato la filosofia di Carvajal a tal punto che avevo paura di intromettermi nel corso inevitabile degli eventi. Sentendomi come uno che si arrampica su una banchisa di ghiaccio diretta verso le Cascate del Niagara, decisi di passare l’indicazione a Quinn, con o senza paura.

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