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Robert Silverberg: Torre di cristallo

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Al di là del completo panorama di un mondo futuro, questo romanzo eccezionale ci invita a riflettere sulla definizione dell’uomo e dell’intelligenza e ci mostra una ricerca di comunicazione che è già di per sé profondamente religiosa. È l’anno 2218. In questa società di viaggi istantanei e di uomini artificiali — gli “androidi” — comincia a sorgere sulla tundra artica la torre di Simeon Krug: un titanico trasmettitore, destinato a rispondere ai segnali provenienti dallo spazio. Krug è dominato dall’ansia di parlare con le stelle, ma non si accorge che intorno a lui sta per scoppiare una crisi: senza saperlo, egli è diventato una figura divina, e ora le sue responsabilità sono quelle di un dio. Krug è stato deificato dagli androidi che egli stesso progetta e costruisce, e tra gli androidi primeggia l’“alfa” Thor Guardiano, braccio destro di Krug ed esponente di un movimento segreto basato sulla fede che Krug libererà gli androidi dalla schiavitù. Così, mentre la torre continua a innalzarsi emblematicamente, la tempesta sociale e personale s’addensa intorno ai protagonisti, fino a raggiungere un vertice narrativo e drammatico raramente toccato dalla fantascienza.

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“Non vedo lo scopo di un messaggio senza un contenuto comprensibile.”

Il messaggio stesso è il suo contenuto: un grido da una galassia all’altra. Ci dice: Ehi, siamo qui; sappiamo come trasmettere. Siamo capaci di ragionare, e vogliamo entrare in contatto con voi.

“Sempre che lei abbia ragione, cosa conta di dire, come risposta?”

Conto di dire: Pronto, pronto, vi abbiamo sentito, abbiamo ricevuto il messaggio, vi salutiamo! Siamo intelligenti anche noi. Siamo esseri umani. Non vogliamo più essere soli nell’universo.

“E con quale linguaggio conta di dirglielo?”

Con il linguaggio dei numeri casuali. E poi con quello dei numeri un po’ meno casuali. Pronto, pronto, 3,14159, ci sentite? 3,14159, rapporto tra circonferenza e diametro.

“E come glielo dirà? Con il laser? Con le onde radio?”

No, no, vanno troppo piano. Non posso aspettare che le onde elettromagnetiche facciano il viaggio avanti e indietro. Parleremo con un fascio tachionico, e racconterò di Simeon Krug agli abitanti delle stelle.

Sul tavolo del massaggio, Krug rabbrividì. Le androidi lo artigliavano, lo percuotevano, gli affondavano le nocche nei muscoli massicci. Che fosse il loro modo d’imprimergli nelle ossa quei numeri arcani? 2-4-1, 2-5-1, 3-1. E dov’era finito quel 2 che mancava? E se anche fosse stato trasmesso, che cosa poteva significare la sequenza 2-4-1, 2-5-1, 2-3-1? Niente. Numeri casuali. Un gruppetto insensato d’informazione non decodificata. Nient’altro che numeri, disposti in configurazioni astratte, ma che portavano il più importante messaggio dell’universo:

Siamo qui.

Siamo qui.

Siamo qui

Vi stiamo chiamando.

E Krug intendeva rispondere. Provava una scossa di piacere quando pensava alla torre completa, al fascio tachionico che si riversava nella galassia. Sarebbe stato Krug a rispondere. L’avido Krug, l’affarista Krug, quel bifolco di Krug, quell’affamato di soldi di Krug, Krug il semplice industriale, Krug l’ignorante, Krug il grassone, Krug lo zotico. Io! Krug! Krug!

— Via! — ringhiò alle androidi. — Basta!

Le ragazze si allontanarono subito. Krug si alzò, si rivestì lentamente, attraversò la stanza e passò le mani sulle luci gialle della parete.

— Ci sono comunicazioni? — chiese. — Visite?

Sfarfallando sull’invisibile schermo di sodio vaporizzato, comparvero a mezz’aria le fattezze di Leon Spaulding: testa e spalle. — C’è il professor Vargas — annunciò l’ectogeno. — L’aspetta nel planetarium. Gli annuncio il suo arrivo?

— Certo: salgo subito da lui. E Quenelle?

— È in Uganda, alla villa del lago. Ha detto che l’aspetta lì.

— Mio figlio?

— È andato alla fabbrica di Duluth; quell’ispezione. Devo comunicargli qualcosa?

— No, grazie — disse Krug. — Mio figlio sa benissimo il da farsi. Vado subito da Vargas.

L’immagine di Spaulding svanì; Krug si diresse al suo ascensore personale e salì rapidamente alla cupola del planetarium, sul tetto del grattacielo. Sotto la volta ramata, la figura sottile e assorta di Niccolò Vargas passeggiava tra una vetrinetta alla sinistra (contenente otto chili di proteinoidi d’Alfa Centauri V) e un tozzo criostato alla destra (nel cui gelido interno oscillavano trenta litri di metano liquido: souvenir dei mari di Plutone).

Vargas era un ometto minuto e bianchiccio, ma aveva una personalità foltissima. Nei suoi riguardi, Krug nutriva un rispetto che sfiorava la soggezione: ecco un uomo che, fin dalla giovinezza, ha dedicato ogni giorno, ogni ora della sua vita a cercare tra le stelle i segni di altre civiltà. Un uomo che conosce a fondo i problemi della comunicazione interstellare. E il volto di Vargas portava le stigmate della sua professione: quindici anni addietro, espostosi incautamente al fascio di un telescopio neutronico in un momento di slancio irrefrenabile, Vargas si era strinato irreparabilmente tutta la parte sinistra del viso. Gli avevano ricostruito l’occhio leso, ma non avevano potuto arrestare la decalcificazione della struttura ossea sottostante. Si erano dovuti limitare a puntellarla con fibre di berillo, cosicché la fronte e la guancia di Vargas conservavano ancor oggi un aspetto incavato, inaridito. Nell’epoca della chirurgia cosmetica le deformità come la sua erano piuttosto rare; l’astronomo, tuttavia, non sembrava preoccuparsi molto di ulteriori ricostruzioni del proprio viso.

Quando Krug entrò, Vargas gli rivolse il suo sorriso torto. — La torre è magnifica! — esclamò.

— Sarà magnifica una volta finita — lo corresse Krug.

— No, no, è già magnifica. Un torso stupendo! Così liscia, Krug, così imponente: e come s’innalza! Ma lo sai, Krug, amico mio, cosa stai costruendo? La prima cattedrale dell’Era galattica. Nelle migliaia d’anni a venire, quando ormai la tua torre avrà esaurito il suo scopo di centro di comunicazioni, la gente si recherà ancora laggiù, e s’inginocchierà, e bacerà la sua superficie levigata, e ti benedirà per averla costruita. E non solo esseri umani.

— Già. Che pensiero affascinante — mormorò Krug. — Una cattedrale. Non l’avevo mai osservata sotto tale aspetto. — Scorse il cubetto che Vargas gli porgeva nella destra. — Cos’è?

— Un dono per te.

— Un dono?

— Abbiamo individuato l’origine dei segnali — spiegò Vargas. — Sarai curioso di vedere la stella.

Krug balzò in avanti, scosso. — Perché aspettare tanto tempo per dirmelo? Perché non dirlo subito; prima, quando eravamo alla torre!

— La torre era il tuo momento. Questo è il mio. Vuoi che lo proietti?

Krug gli indicò la scanalatura del proiettore, con impazienza. Vargas inserì abilmente il cubo e accese l’analizzatore. Fasci bluastri di luce esploratrice sezionarono il reticolo cristallino del cubo, scavandone fuori il messaggio registrato.

Sul soffitto del planetarium fiorirono le stelle.

Krug aveva una certa familiarità con la Galassia. I suoi occhi ravvisarono configurazioni note: Sirio, Canopo, Vega, Capella, Betelgeuse, Altair, Fomalhaut, Deneb… i più fulgidi fari dei cieli, spiegati spettacolarmente sulla cupola che lo sovrastava. Lo sguardo gli corse alle stelle più vicine, quelle che, comprese nel raggio di una quindicina di anni luce dal sistema solare, erano state raggiunte dalle sonde stellari inviate dall’uomo: Epsilon Indi, Ross 154, Lalande 21185, l’Astro di Barnard, Wolf 359, Procione, 61 Cygni. Guardò in direzione del Toro e scorse la rossa Aldebaran luccicargli nella fronte, con dietro, lontano, il grappolo delle Iadi, e con le Pleiadi che avvampavano sotto il velo brillante. E poi le costellazioni si allargarono mentre la distanza focale si ravvicinava, mentre le distanze aumentavano. Krug si sentiva un tumulto nel petto. Vargas non aveva ancora detto parola.

— Allora? — si decise a chiedere Krug. — Cosa dovrei vedere?

— Osserva verso Acquario.

Krug scrutò il cielo settentrionale. Seguì la pista familiare: Perseo, Cassiopea, Andromeda, Pegaso, Acquario. Sì, ecco lì l’antico Coppiere tra Pesci e Capricorno. Krug si sforzò di ricordare il nome di qualche stella importante dell’Acquario, ma non approdò a nulla.

— Be’? — chiese.

— Continua a guardare. Adesso ingrandisco l’immagine.

Krug s’irrigidì mentre la volta siderea si avventava contro di lui. La forma della costellazione non riusciva più a discernerla, ormai; capitombolavano i cieli, e ogni ordine era andato perso. Quando il movimento cessò, si trovò a fissare un singolo segmento della Galassia, ingrandito fino a occupare l’intera cupola del planetarium. Allo zenit, direttamente sopra di lui, compariva l’immagine di un anello infocato, nero all’interno e bordato di un irregolare alone di gas luminosi. Un minuscolo puntino di luce scintillava nel centro esatto dell’anello.

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