Anch’io mi spogliai completamente. Perché no? Era comodo, e poi era di moda. Mi accorsi, però, che non riuscivo a rilassarmi. In passato non mi ero mai accorto che prendere il Sole insieme a Shirley generasse in me un’ovvia tensione. Adesso però un tor rente di desiderio mi ruggiva nel sangue, talvolta, dandomi le vertigini, e dovevo aggrapparmi alla ringhiera del terrazzo e distogliere lo sguardo.
Anche il contegno di Jack era strano. Per lui, lì, la nudità era del tutto naturale; ma continuò a tenere i calzoncini per un giorno e mezzo, dopo che Vornan aveva indotto me e Shirley a spogliarci. Sembrava lo facesse per sfida… lavorava in giardino, potava un arbusto, con il sudore che gli colava giù per l’ambia schiena, macchiando la cintura degli short. Alla fine, Shirley gli chiese perché era così pudico. «Non so,» disse lui, stranamente. «Non me n’ero accorto.» E continuò a tenere i calzoncini.
Vornan alzò la testa e disse: «Non sarà per me, vero?» Jack rise. Toccò il fermaglio degli short e se li sfilò, voltandoci castamente la schiena. Benché da quel momento andasse in giro senza, sembrava decisamente infastidito.
Jack pareva affascinato da Vornan. Parlavano a lungo, con citatamente, davanti a bicchieri di bevande ghiacciate; Vornan ascoltava pensoso, dicendo qualcosa di tanto in tanto, mentre Jack snocciolava un torrente di parole. Facevo poco caso a quelle discussioni. Parlavano di politica, di viaggi nel tempo, di conversione dell’energia e di molte altre cose, e ogni conversazione diventava ben presto un monologo. Mi chiedevo perché Vornan fosse tanto paziente, ma senza dubbio lì c’era poco d’altro da fare. Dopo un po’, mi chiusi in me stesso e mi limitai a starmene disteso al Sole a riposare. Mi rendevo conto di essere terribilmente stanco. Quell’anno era stato molto faticoso per me. Sonnecchiavo. Mi crogiolavo al Sole. Sorseggiavo bibite ghiacciate. E lasciavo che la distruzione ingoiasse i miei amici più cari, senza intuire neppure lontanamente l’approssimarsi degli eventi.
Vedevo la vaga insoddisfazione che cresceva in Shirley. Si sentiva ignorata e respinta, e potevo capire perché. Voleva Vornan. E Vornan, che aveva requisito tante dozzine di donne, la trattava con rispetto glaciale. Come se avesse abbracciato un po’ tardi la morale borghese, Vornan rifiutava di accettare le avances di lei, indietreggiando con molto tatto. Qualcuno gli aveva spiegato che era scorretto sedurre la moglie del proprio ospite? La correttezza non aveva mai costituito un pensiero per lui, in passato. Potevo attribuire quella miracolosa dimostrazione di continenza, adesso, solo alla sua vena innata di malizia. Era capace di portarsi a letto una donna per capriccio, come nel caso di Aster, diciamo; ma adesso lo divertiva deludere Shirley solo perché lei era bella e nuda e chiaramente disponibile. Era una reviviscenza del vecchio, diabolico Vornan, pensavo: il classico dispetto.
Shirley sembrava quasi disperata. La sua goffaggine irritava me, che ero il testimone involontario. La vedevo strusciarsi contro Vornan, per premergli un seno sodo contro la schiena mentre fingeva di prendere la bottiglia vuota che lui aveva posato per terra; la vedevo invitarlo sfacciatamente con gli occhi; la vedevo stendersi in pose studiatamente provocanti che in passato aveva sempre evitato per istinto. Non serviva a nulla. Forse, se fosse entrata nella stanza di Vornan, di notte, e gli si fosse buttata addosso, avrebbe ottenuto ciò che voleva; ma il suo orgoglio le impediva di spingersi a tanto. E così diventava volgare per la frustrazione. Ritornò quella sua brutta risatina stridula. Rivolgeva a Jack o a Vornan o a me osservazioni che rivelavano un’ostilità malcelata. Rovesciava o lasciava cadere gli oggetti. A me, tutto questo faceva un effetto deprimente, perché io avevo mostrato molto tatto con lei, non per pochi giorni, ma per dieci anni interi; avevo resistito alla tentazione, mi ero negato il piacere proibito di prendere la moglie del mio amico. Non mi si era mai offerta come adesso si offriva a Vornan. Non mi piaceva vederla così, e l’ironia della situazione non mi divertiva.
Jack era totalmente ignaro del tormento di sua moglie. Era così affascinato da Vornan che non riusciva ad osservare quanto accadeva intorno a lui. Nel suo isolamento in mezzo al deserto, Jack non aveva avuto occasione di farsi nuovi amici, in tanti anni, e aveva avuto pochi contatti con quelli vecchi. Adesso si era attaccato a Vornan esattamente come un bambino solitario si attaccherebbe ad un nuovo venuto nel quartiere. Scelgo volutamente questo paragone; c’era qualcosa di adolescenziale o addirittura di subadolescenziale nella resa di Jack a Vornan. Parlava incessantemente, presentandosi sullo sfondo della sua carriera universitaria, descrivendo le ragioni del suo ritiro nel deserto, portando persino Vornan giù, in quel laboratorio dove io non ero mai entrato, e dove mostrava al suo ospite il manoscritto segreto dell’autobiografia. Per quanto si trattasse di argomenti intimi, Jack ne parlava liberamente, come un ragazzino che mette in mostra i suoi giocattoli più cari. Comprava l’attenzione di Vornan con uno sforzo frenetico. Sembrava che lo considerasse un caro amico. Io, che avevo sempre giudicato Vornan indicibilmente alieno, ed ero arrivato ad accettarlo come autentico soprattutto perché m’ispirava uno sgomento misterioso, trovavo sconvolgente vedere Jack soccombere in quel modo. Vornan sembrava soddisfatto e divertito. Di tanto in tanto sparivano in laboratorio per ore ed ore. Mi dicevo che era un sistema escogitato da Jack per estorcere a Vornan le informazioni desiderate. Era furbo, no, costruire un rapporto così intenso allo scopo di poter sondare la mente di Vornan?
Ma Jack non otteneva informazioni da lui. E nella mia cecità, io non mi accorgevo di niente.
Come potevo non vederlo? Quell’espressione di confusione assorta e sognante che Jack aveva ormai quasi sempre? I momenti in cui abbassava gli occhi, distogliendoli da Shirley o da me, con le guance accese da un imbarazzo sconosciuto? Anche quando vedevo Vornan posare la mano, in un gesto possessivo, sulla spalla nuda di Jack, rimanevo cieco.
Shirley ed io trascorrevamo insieme più tempo, in quei giorni, che nelle mie visite precedenti, perché Jack e Vornan se ne andavano sempre per i fatti loro. Non approfittai dell’occasione. Parlavamo poco, ma stavamo sdraiati fianco a fianco, crogiolandoci al Sole. Shirley sembrava così tesa e nervosa che non sapevo mai cosa dirle, e perciò tacevo. L’Arizona era avvolta da un’ondata di calore autunnale. Il caldo saliva bollendo dal Messico verso di noi, e ci stordiva. La pelle nuda di Shirley brillava come uno splendido bronzo. La stanchezza mi abbandonava. Parecchie volte, lei mi sembrò sul punto di parlare, ma poi le parole le morivano in gola. Si creò una sorta di tensione. Istintivamente, sentivo un guaio nell’aria, come si sente l’avvicinarsi d’un temporale estivo. Ma non capivo cosa non andasse; ero chiuso in un bozzolo di calore, captavo le emanazioni incerte di un imminente cataclisma, eppure fino al momento del disastro non mi resi conto della situazione.
Accadde il dodicesimo giorno della nostra visita. Era l’ultimo giorno di ottobre, ma il caldo eccezionale perdurava; a mezzogiorno il Sole era un occhio sfolgorante di cui non si poteva reggere lo sguardo, ed io non resistevo più a restare all’aperto. Mi scusai con Shirley (Jack e Vornan non si vedevano) e andai in camera mia. Mentre rendevo opaca la finestra, indugiai per guardare Shirley, distesa torpidamente sul terrazzo, con gli occhi schermati, il ginocchio sinistro sollevato, i seni che si alzavano e si abbassavano lentamente, la pelle luccicante di sudore. Era l’immagine del rilassamento totale, pensai, la bella donna languida che sonnecchia nel calore del meriggio. E poi notai la sua mano sinistra, stretta rabbiosamente a pugno, che tremava al polso, facendo pulsare i muscoli di tutto il braccio. E compresi che la sua posa era una conscia finzione di tranquillità, mantenuta per pura forza di volontà.
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