Poul Anderson - Il popolo del vento

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Il popolo del vento: краткое содержание, описание и аннотация

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Il tempo: un futuro lontanissimo, quando la stessa fantascienza sarà divenuta leggenda di ere remote. II luogo: lo spazio intergalattico, dove si prepara la più feroce guerra dell’universo.
I motivi: l’Impero Terrestre, colonialista ed espansionista, non sopporta la vicinanza del Dominio di Ythri, una federazione di mondi con un sistema sociale molto prossimo all’anarchia. Gli Ythrani, antichissimo popolo di uomini-uccello la cui storia si è già intrecciata in passato con quella umana, non hanno la forza militare necessaria a respingere l’invasione terrestre, e devono arrendersi ben presto. Tutto fa credere che per la civiltà di Ythri sia la fine, ma c’è un mondo, un solo pianeta che è capace di tenere in scacco l’immensa flotta Imperiale. E’ il mondo di Avalon, l’unico nella galassia dove umani e Ythrani convivono in perfetta armonia. La loro civiltà «mista» darà una lezione di storia (e di tattica militare, se è per questo) che difficilmente i pianeti dello spazio potranno dimenticare.

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«Temo che non abbiamo molto tempo per l’allegria», se ne uscì lui. «Non ci aspetta niente di buono».

«Davvero?».

«L’Impero sta per espandersi a spese nostre».

«Vieni in casa». Tabitha lo prese per un braccio e lo portò verso l’insediamento. Le sue abitazioni di legno con tetti di paglia erano più basse della maggior parte delle case Ythrane, e più robuste di quanto sembrassero; perché lì c’era ben poco riparo contro gli uragani di Avalon. «Oh, sì», disse lei, «è dai tempi di Manuel Primo che l’Impero si espande con decisione. Ma io ho letto la sua storia. Come hanno fatto a tenere sotto controllo tanto territorio? Una parte per semplice associazione: i non umani civilizzati come i Cinziani l’hanno trovato vantaggioso. Una parte per acquisto o per scambio. Una parte per conquista, sì, ma sempre a danno dei primitivi, o quanto meno dei popoli la cui potenza spaziale era ridicola in confronto a quella della Terra. Ma noi siamo un osso più duro da rodere».

«Davvero? Mio padre dice…».

«Uh-huh. La sfera dell’influenza dell’Impero raggiunge quasi i quattrocento anni luce da un capo all’altro, la nostra è di circa ottanta. Di tutti i sistemi compresi nel suo raggio, l’Impero è in diretto contatto con parecchie migliaia, noi con appena duecentocinquanta. Ma non capisci, Chris, che noi conosciamo molto meglio i nostri pianeti? Siamo più compatti. Le nostre risorse complessive sono minori, ma ogni minima parte della nostra tecnologia è altrettanto buona. E poi, siamo distanti dalla Terra. Perché dovrebbero attaccarci? Noi non li minacciamo, ci limitiamo a reclamare i nostri diritti lungo la frontiera. Se vogliono più spazio, possono trovarsene quanto ne vogliono più vicino a casa; ci sono una quantità di soli che non hanno mai visitato, e che sono più facili da conquistare di quelli di un Dominio orgoglioso e bene armato».

«Mio padre dice che siamo deboli e impreparati».

«Pensi che perderemmo la guerra?».

Lui rimase silenzioso finché entrambi sentirono, al di sopra del mormorio più avanti, la sabbia che scricchiolava sotto i loro predi. Infine: «Beh, credo che nessuno vada in guerra aspettandosi di perderla».

«Non penso che combatteranno», disse Tabitha. «Penso che l’Impero sia dotato di maggior buon senso».

«Tuttavia, sarà meglio che prendiamo delle precauzioni. Bisogna difendere il nostro paese».

«Sì. Non sarà facile organizzarsi, in mezzo ad un centinaio o più di gruppi indipendenti».

«Ecco dove possiamo intervenire noi uccelli, forse», azzardò lui. «In particolare quelli di lunga tradizione, come la tua famiglia».

«Sarò onorata di aiutarti», rispose lei. «E in effetti non credo che i gruppi troveranno eccessive difficoltà a collaborare…». Scosse la testa con orgoglio: «… quando si tratta di far vedere all’Impero chi vola più alto!».

Eyath e Vodan volavano insieme. Formavano una bella coppia, entrambi con gli occhi e le braccia dorate, lui ocra scuro, lei bronzo intenso. Sotto di loro si stendevano le terre di Stormgate, valli nereggianti di foreste, creste e dirupi, picchi dove i campi di neve si alternavano alla roccia blu-grigia screziata, cascate come lame di spade e il remoto bagliore di un ghiacciaio. Una brezza musicale guidava le nuvole, che Laura tingeva d’oro, nell’aria altrimenti brillante; le loro ombre correvano e si increspavano per il mondo. Gli Ythrani si imbevevano del freddo del vento, nuotando nella sua turbinante, prepotente, avvolgente potenza. Colpiva le loro penne fino a far rabbrividire le punte dei grandi remiganti esterni.

Lui disse: «Se noi fossimo della razza di Arinnian, di certo ti sposerei subito, adesso, prima di imbarcarmi. Ma tu non sarai in amore prima di qualche mese, e per allora potrei essere morto. Non vorrei costringerti a un tal dolore per nulla».

«Pensi che soffrirei di meno solo perché non porterei il nome di vedova?», replicò lei. «Reclamerei il diritto di guidare la tua danza commemorativa, perché io so quali parti di questi cieli di piacciono di più».

«Eppure dovresti affrontare sgradevoli problemi, come gli obblighi verso il mio sangue e così via. No. Diminuirà forse la nostra amicizia solo perché, per un po’ ancora, non porterai il nome di moglie?».

«Amicizia…», mormorò lei. Poi, d’impulso: «Stanotte ho sognato che eravamo proprio come degli umani».

«Come, sempre in calore?».

«Sempre in amore».

«Kh’h’ng. lo non ho nulla contro Arinnian, ma a volte mi domando se tu non abbia trascorso troppo tempo insieme a lui, fin da quando eravate piccoli. Se Lythran non ti avesse portato con sé quando ha avuto da fare con Gray…». Vodan vide la cresta di lei rizzarsi, e si interruppe, aggiungendo in tutta fretta: «Sì, è il tuo compagno di vento. E quindi lo è anche per me. Io volevo solo avvisarti… non cercare, non desiderare di essere umana».

«No, no». Eyath sentì una corrente discensionale che le sfiorava il fianco. Si inclinò per afferrarla, un battito di ali e poi il lungo e sfrenato volo verso il basso, con i picchi che la sfioravano, e la rapida visione attraverso gli alberi di uno stagno luccicante dove un ferino stallone si abbeverava, il canto e l’impeto e la carezza dell’aria trafitta, e poi ancora il controllo di sé e di nuovo verso l’alto, contro il fiume d’aria, ogni muscolo che sprizza vitalità… ed ecco là una corrente calda ascendente, tradita dal lievo tremolare di una montagna scorta attraverso di essa, l’afferrarsi, le ali che si allargano mentre il cielo guida la danza e lei ride.

Vodan la raggiunse. «Potrei rinunciare a tutto questo?», lei gli gridò gioiosamente. «O a te?».

Ekrem Saracoglu, governatore imperiale del Settore di Pax, aveva fatto capire che avrebbe avuto piacere di incontrare la figlia dell’Ammiraglio di Flotta Juan de Jesùs Cajal y Palomares. Lei era venuta dal Nuevo Mexico in qualità di hostess ufficiale e di assistente del padre vedovo, dopo che lui aveva trasferito il suo quartier generale ad Esperance ed aveva preso in affitto una casa a Fleurville. Ma la data continuava ad essere rinviata. Non che l’ammiraglio avesse qualcosa contro il governatore — anzi, andavano piuttosto d’accordo — né che non si fidasse delle sue intenzioni, malgrado la fama di donnaiolo di quest’ultimo. Luisa era cresciuta tra gente che, se pur necessariamente parsimoniosa sul suo mondo arido, era ricca di onore e piena di orgoglio fino alla punta dei capelli. Era solo che entrambi avevano troppo da lavorare.

Finalmente riuscirono a liberarsi dei rispettivi impegni, e Cajal invitò Saracoglu a cena. Vi fu poi un ridicolo contrattempo dell’ultimo minuto. L’ammiraglio telefonò a casa che sarebbe stato trattenuto in ufficio per un paio d’ore. Il governatore era già per strada.

«E allora, Donna, tu sei stata incaricata di farmi compagnia a causa di un pasto rinviato», fece galante Saracoglu baciandole la mano. «Ti assicuro, sono tutt’altro che contrariato». Benché basso di statura, aveva una figura vivace ed un volto oscuramente piacevole. E si accorse subito che, malgrado la sua solennità, la ragazza sapeva ascoltare un uomo e, cosa ancor più rara, sapeva rivolgergli domande stimolanti.

Stavano passeggiando nel giardino. Quei cespugli di rose e quegli alberi di ciliegi avrebbero quasi potuto essere piante della Terra; Esperance era il gioiello dei pianeti colonizzati. Pax, il sole, era ancora alto sull’orizzonte, nel pieno dell’estate, e disponeva i suoi raggi caldi attraverso un vecchio muro di mattoni. L’aria era tiepida, e risuonava dei canti degli uccelli e profumava dei verdi odori che provenivano dalla campagna. Un paio di vetture volavano in alto, ma Fleurville non era abbastanza grande perché il rumore del traffico potesse giungere così lontano dal centro.

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