Marion Bradley - La spada di Aldones

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Aldones è uno degli dei di Darkover, uno dei Signori della luce. Il romanzo prosegue le vicende narrate in Ritorno a Darkover e Il Signore di Storn. La storia inizia con il figlio di Kennard Alton richiamato su Darkover dal Reggente. Sul Pianeta del Sole Rosso ha inizio la lotta contro i terrestri e alcuni nobili vogliono usare il potere di Sharra, la dea del fuoco, il cui culto è proibito, per sconfiggerli. Il giovane, figlio di un darkovano e di una terrestre, si trova così diviso fra due fazioni e avventurandosi in una delle Torri, deve confrontarsi con il potere di Sharra, cercando l'aiuto di un dio a lei superiore: Aldones.
Nominato per il premio Hugo per il miglior romanzo in 1963.

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«Se vai a chiedere di lui nelle Terre Aride, ti diranno che Zeb Scott è morto in una taverna di Carthon, ucciso dall'alcool, e che quando era ubriaco parlava sempre di una spada azzurra con la potenza di cento diavoli. Kadarin, che aveva ascoltato quella storia prima di ogni altro, sapeva che doveva trattarsi di Sharra e, seguendo i vaghi ricordi di Scott, si era messo alla sua ricerca.

«Una delle tante leggende su Sharra dice che gli Aldaran, molti secoli fa, l'avevano evocata e le avevano aperto le porte del nostro pianeta; in seguito, però, le porte d'accesso erano state chiuse e gli Aldaran erano stati esiliati per il loro crimine. Solo allora avevano cominciato a lottare contro le altre Famiglie nel modo che sappiamo, e a proteggere i banditi che facevano razzie nelle Pianure. Fino a cogliere, in tempi più recenti, l'occasione dell'arrivo dei terrestri per dare loro una base sul nostro mondo e per procurarsi le loro armi.

«Kadarin, come dicevo, si era messo alla ricerca della spada di Sharra e alla fine era riuscito a trovarla. Conosceva la meccanica delle matrici e cominciò a fare esperimenti con il suo potere. Tuttavia, per usare la matrice, gli occorreva un lettore del pensiero, e pensò subito a me. Io ero a sua disposizione, ed ero troppo giovane e impulsivo per capire fino in fondo quello che stavo facendo. Inoltre c'erano gli altri figli di Scott: abitavano con Kadarin — e lui, ti assicuro, li trattava come se fossero suoi fratelli — ed erano i miei migliori amici. Rafe era piccolo, allora, ma aveva due sorelle più vecchie: Thyra e Marjorie…»

Mi fermai, perché era inutile parlare. Non sarei riuscito a farle capire di me e Marjorie. Aprii la finestra e gettai via la sigaretta; la vidi roteare su se stessa, sempre più in basso, finché non sparì, portata via da un improvviso soffio di vento.

Perso in quei ricordi, mi ero dimenticato di Callina. Ora sentii la sua voce.

«Che cosa intendeva fare, precisamente, con quegli esperimenti?» mi chiese.

Quello era un terreno sicuro, su cui non correvo il rischio di venire travolto dai sentimenti.

«Che cosa ha sempre cercato di rubarci, ogni traditore?» chiesi. «I terrestri cercano da decenni di conoscere i segreti della meccanica delle matrici, e non solo quelle poche nozioni che usano i loro “meccanici” autorizzati, nella Zona Terrestre.

«I Comyn, però, sono incorruttibili, e perciò Kadarin sapeva che i terrestri l'avrebbero ricompensato generosamente. Con il potere della matrice, riattivò alcuni dei punti attivi, e mostrò ai terrestri alcuni poteri di Sharra. Ma alla fine tradì anche i terrestri, e aprì un buco nello spazio, una porta tra i mondi, per usare a scopo personale tutto quel potere…»

La voce mi si incrinò.

«Maledetto Kadarin!» mormorai. «Maledetto sempre, quando dorme e quando è sveglio, adesso e quando sarà morto, qui e in tutti gli altri mondi!»

Mi ripresi subito, però, e continuai, con voce più pacata: «Lui ha ottenuto il potere che voleva, ma io e Marjorie eravamo ai due poli di potenza, e…»

Scossi la testa. Che altro potevo dire? Parlare della fiamma che si era scatenata su due mondi, del fuoco infernale? Di Marjorie, che aveva fatto da polo, sicura di sé, priva di ogni timore, e che improvvisamente era caduta a terra, colpita da quella potenza terribile?

«Io mi sono staccato dalla matrice e sono riuscito a chiudere di nuovo la porta. Ma Marjorie era ormai…»

Incapace di proseguire, mi lasciai scivolare su una sedia e mi coprii gli occhi con la mano. Callina si inginocchiò accanto a me e mi posò la mano sulla spalla.

«Lo so, Lew. Lo so», mi disse.

Ma io mi voltai con ira verso di lei.

«Lo sai ?» le chiesi. «Ringrazia tutti i tuoi dèi di non saperlo!» dissi con rabbia. Poi, tradito da quei ricordi, appoggiai la testa sul suo petto. Callina aveva ragione: lei sapeva. Aveva cercato di salvarci tutt'e due. Marjorie le era morta tra le braccia.

«Sì», dissi. «Il resto lo sai.»

Avevo una forte pulsazione alla testa, ma sentivo il battito del suo cuore, attraverso la soffice seta della sua veste da Guardiana. I suoi capelli sulla mia faccia sembravano polvere di fiori. Sollevai la mano e le strinsi le dita.

Lei alzò la testa e mi fissò.

«Siamo solo noi due, Lew, contro tutto questo», mi disse. «Il Reggente è tenuto per giuramento a obbedire al Consiglio. Derik è un imbecille, e Regis è troppo giovane. I Ridenow e l'Ardais si afferrerebbero a qualsiasi cosa che potesse dare loro il potere: si venderebbero alla stessa Sharra, se pensassero di poterlo fare senza pericolo! Da solo, non puoi fare niente. E io…»

Mosse le labbra, ma non ne uscì alcuna parola.

Dopo qualche istante, continuò: «Io sono una Guardiana, e potrei disporre del potere di Ashara, se volessi usarlo. Ashara mi darebbe la forza sufficiente a dominare l'intero Consiglio, se glielo lasciassi fare, ma io… non voglio essere una marionetta in mano sua, Lew, non voglio essere solo una sua pedina! Il Consiglio mi tira da una parte, Ashara dall'altra. Beltran non può essere peggiore di loro!»

Ci abbracciavamo come due bambini spaventati dal buio. Il suo corpo era morbido, tra le mie braccia. La strinsi più forte; poi il suo tentativo di protesta si spense in un bacio. Non cercò di resistere quando la sollevai e la baciai di nuovo.

All'esterno, l'ultima traccia rossa del tramonto sparì dietro i monti e nel cielo nudo cominciò ad ammiccare qualche stella.

CAPITOLO 6

IL SEGNO DELLA MORTE

Il culmine dei potere dei Comyn, due o tre secoli fa, la Sala dei Cristalli doveva essere parsa piccola, per tutti coloro che potevano vantare il loro diritto ereditario. Dalle pareti trasparenti si diffondeva una serena luce azzurra, in cui, di tanto in tanto, guizzava un lampo verde, rosso, giallo. Durante il giorno sembrava di trovarsi al centro dell'arcobaleno; di sera pareva un luogo fuori del mondo, una nave di cristallo che veleggiava sui venti dello spazio.

Laggiù io ero stato presentato ai Comyn, quando avevo cinque anni, ma ero troppo robusto e scuro di capelli per essere un vero Comyn. Eppure, anche se ero così giovane, ricordavo ancora il dibattito, e il vecchio Duvic Elhalyn che diceva: «Kennard Alton, perdi il tuo tempo e insulti questo sacro luogo, se credi di poter portare in Consiglio i tuoi bastardi mezza-casta!»

E ricordavo che mio padre si era voltato verso di lui, con rabbia e mi aveva sollevato tra le braccia, in piena vista dei Comyn.

«Guardate il bambino, e rimangiatevi le vostre parole!» aveva detto, e il vecchio Elhalyn non aveva più parlato. Nessuno osava sfidare mio padre una seconda volta.

Non che quella sfuriata di mio padre fosse servita a molto. Mezza-casta ero, e bastardo ero rimasto; sarei sempre rimasto un estraneo. Esattamente come il bambino che era stato per ore a sorbirsi il lungo cerimoniale incomprensibile, col braccio che gli faceva male dove l'avevano tatuato con la matrice per dimostrare la sua appartenenza alle Famiglie.

Mi guardai il polso. Avevo ancora il tatuaggio, poco al di sopra del punto dove mi avevano dovuto tagliare la mano.

«A che cosa pensi?» mi chiese Derik.

«Oh, scusami», dissi io, sorpreso. «Mi hai chiesto qualcosa? Pensavo a quando sono entrato per la prima volta in questa sala. In quegli anni c'era molta più gente.»

Derik rise.

«Allora», disse, «è tempo che tu metta al mondo qualche nuovo Alton da mandare in Consiglio!»

L'idea non mi dispiaceva. Le mie terre, fertili vallate verdi a qualche giorno di viaggio da Thendara, avevano bisogno di me. Guardai Gallina: sedeva accanto a Linnell, su una poltrona capace di accogliere almeno sei ragazze come loro. Derik mi lasciò per andare a parlare con Linnell: vidi che la ragazza gli sorrideva, felice, e che anche il viso sottile e aggraziato del principe si illuminava. Non era veramente sciocco come molti lo giudicavano, Derik; più che altro, come tanti giovani Comyn, non credeva nelle proprie responsabilità.

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