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Fritz Leiber: Novilunio

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Perduta in uno spazio brulicante di stelle, sola in una nera giungla di vuoto cosmico, la Terra ha sognato per migliaia d'anni la propria solitudine. Come in una grande casa abitata da vecchi abitudinari, nella quale nessuno viene mai a rendere visita, così gli abitanti della Terra pensano che nessuno possa venirli a trovare da quel nero abisso scintillante di punti luminosi che splende sopra le nostre teste, di notte. Come la Luna è stata una fedele compagna della Terra nella sua solitudine celeste, così le stelle sono state soltanto immagini remote, indistinte, piccole fiamme sospese nel cielo, inaccessibili e straniere e incorporee. Ma un giorno qualche viaggiatore, lasciando la strada lontana, potrebbe venire a bussare alla porta della vecchia casa; un giorno qualcosa potrebbe avvicinarsi, strisciando, nella giungla nera degli spazi cosmici. Quel giorno potrebbe essere vicino, in un cosmo dove le forze del tempo e del caso si muovono secondo schemi che la mente umana non riesce neppure a intuire. E cosa accadrebbe, se uno dei punti luminosi nel cielo… una delle stelle lontane… apparisse d'un tratto enorme, come un globo sanguigno e minaccioso, nei cieli notturni della Terra? Se la fedele compagna delnostro pianeta, la Luna, fosse risucchiata e cancellata dal cielo? Inizierebbe allora una lunga, infinita notte di novilunio. Un grande cielo color ardesia, dove le stelle brillano rade e fievoli, sopra coste battute da gigantesche maree, tra grandi cataclismi ed eventi ancor più bizzarri, una notte di novilunio che opera strani prodigi sulla mente e sul cuore degli uomini, facendo emergere tutto ciò che di migliore, e di peggiore, di nobile, e di volgare, costituisce l'essenza della natura umana. In questa notte di novilunio, forse il genere umano comincerebbe a conoscere se stesso… Vincitore del premio Hugo per il miglior romanzo in 1965.

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«Accidenti a te, sei stata tu a mettermi in questo pasticcio, brutta puttana in sottoveste, brutta cagna negra!» gridò Don Guillermo alla luna enorme, e al suo fosco disco arancione.

La Principe Carlo e la Pazienza , l'imbarcazione del navigatore solitario, percorrevano le loro rotte divergenti attraverso la massa dell'Atlantico. Quasi tutti i passeggeri giovani erano andati ai loro appuntamenti, con il sonno o con i partner o le partner scelti per la notte, ma il capitano Sithwise stava facendo il suo turno di guardia sul ponte. Provava una bizzarra sensazione di disagio. Si disse che doveva essere colpa della presenza di quei rivoluzionari a bordo: quel branco di conquistatori d'imperi produceva simili pazzi effetti… come se respirassero, ed emettessero, dell'etere.

Wolf Loner era cullato dalle braccia dell'oceano, e il suo cuscino era un miglio di acqua salata. Il banco di nubi, sotto il cui bordo orientale la Pazienza era entrata, era molto vasto, e lunghe scie di nebbia lo seguivano, e si stendeva fino a Edmond e al Great Slave Lake, e da Boston fino a nord, raggiungendo lo Stretto dell'Hudson.

Sally Harris concesse a Jake Lesher un altro sfogo di carezze e più pesanti attenzioni tattili, in una curva buia della Casa degli Orrori, ma lo ammonì:

«Ehi, non spiegazzarmi la gonna… usa la cerniera automatica sul fianco.»

«Anche le tue mutandine sono chiuse magneticamente?» domandò Jack.

«No, ma c'è un piccolo congegno che le fa sparire. Fai piano, adesso… e per l'amor di Dio, non dirmi che queste ti ricordano le vecchie, buone pagnotte fatte in casa che mamma Lesher cuoceva al forno. E adesso basta, altrimenti il Razzo chiuderà prima che noi abbiamo visto l'eclissi.»

«Sal, non sei mai stata così fissata per l'astronomia prima d'ora, e non abbiamo realmente bisogno degli scossoni di quelle montagne russe. Tu hai le chiavi dell'appartamento di Hasseltine, no?, e lui è partito, no?… e inoltre, non mi hai mai portato lassù. Se quel grattacielo per te non è abbastanzo alto…»

«Questa notte il mio grattacielo è il Razzo,» disse la ragazza. «Basta così, ho detto!»

Con una mossa sinuosa, lei si sottrasse alle mani di Jack, e corse via, passando davanti a un saturniano livido, alto due metri e mezzo, che era uscito a grandi passi da una parte, stringendo un lunghissimo fucile a raggi e inondandola di una luce azzurrina scintillante.

Asa Holcomb, con il respiro un po' affannoso, raggiunse la cima della piccola mesa a ovest delle Montagne della Superstizione dell'Arizona. Proprio in quel momento la parete della sua aorta si ruppe, e il sangue cominciò a filtrargli nel petto. Non ci fu alcun dolore, ma egli avvertì una debolezza strana, e un bizzarro senso di vertigine, e scivolò a sedere silenziosamente sulla roccia levigata e piatta, che conservava ancora un po' di calore della lunga giornata assolata.

Non rimase particolarmente sorpreso, né particolarmente impaurito. La debolezza sarebbe passata, oppure no. Il malore poteva essere passeggero… oppure no. Aveva saputo fin dall'inizio che quella breve arrampicata verso una buona posizione per osservare l'eclissi era una cosa pericolosa. Dopotutto, sua madre lo aveva avvertito che era pericoloso arrampicarsi da solo sulle rocce, settant'anni prima. Doppiamente pericoloso, con un'aorta sottile come carta velina. Ma valeva sempre la pena di correre qualsiasi rischio, pur di allontanarsi da solo, fare una piccola scalata, e osservare i cieli stellati.

I suoi occhi avevano indugiato, un po' malinconicamente, sulle luci della Mesa, ma subito dopo egli li sollevò. Quella sarebbe stata circa la cinquantesima volta in cui lui avrebbe visto la Luna sparire, ma quella notte lei pareva ancor più bella, nella fase di luce ramata, di quanto mai lo fosse stata in passato, molto più della melagrana che Proserpina aveva colto nel Giardino della Morte. La debolezza, il malore, non stavano passando.

CAPITOLO IV

La convertibile che portava Margo Gelhorn e la gatta Miao e Paul Hagbolt sobbalzava lungo la strada sconnessa, con la roccia brulla ed erta di nuovo a destra, la sabbia della spiaggia a sinistra, entrambe, ora, a meno di un metro di distanza. Allontanandosi dall'autostrada, la notte pareva chiudersi intorno a loro come un nero coperchio. I tre viaggiatori avvertivano pienamente, ora, la solitaria oscurità della luna in eclissi che s'inerpicava per i sentieri stellati del cielo. Anche Miao si era messa a sedere sulle zampe posteriori, per guardare avanti con occhi fosforescenti.

«Tra le altre cose, questa strada probabilmente conduce alla porta posteriore di Vandenberg Due,» stava ruminando Paul. «La porta della spiaggia, la chiamano. Naturalmente, io dovrei passare dalla porta principale, ma in un buio così…» Poi, dopo qualche secondo, «È buffo vedere come questi maniaci dei dischi volanti tengano sempre le loro riunioni accanto a qualche base missilistica, o a qualche centrale atomica. Sperano forse che un po' di chiasso e di splendore riesca a filtrare fino a loro, immagino. Sapevi che una volta l'Astronautica era sospettosa, nei loro confronti?»

I fari illuminarono una frana, che bloccava una buona metà della strada. La terra franata era alta fin quasi al cofano della macchina, e recente, a giudicare dall'aspetto umido del terriccio. Paul fermò l'auto.

«Fine della spedizione dei dischi volanti,» annunciò, allegramente.

«Ma gli altri sono andati avanti,» disse Margo, alzandosi di nuovo in piedi. «Vedi laggiù? È in quel punto che hanno aggirato la frana, per proseguire.»

«E va bene,» disse Paul, in tono scherzosamente cavernoso. «Ma se rimarremo bloccati nella sabbia, tu dovrai andare a cercare dei legni portati dalla marea, da mettere sotto gli pneumatici.»

Le ruote girarono a vuoto due volte, ma la convertibile non faticò affatto a mettersi in moto. Poco più avanti, essi ragggiunsero una specie di vallata naturale, o grande caverna, nell'altura, dove la strada si espandeva raggiungendo un'ampiezza almeno tre volte maggiore di prima. Una buona dozzina di automobili avevano usato quello spazio in più per parcheggiare, fianco a fianco, con i parafanghi quasi appoggiati alla parete naturale. Tra coloro che erano arrivati per primi si vedevano una perlina rossa, una utilitaria e un camioncino bianco aperto.

Dopo l'ultima automobile c'era un'altra lanterna verde, che illuminava un cartello vergato in eleganti caratteri: Parcheggiate qui. Poi seguite le luci verdi.

«Proprio come alla stazione della metropolitana di Times Square,» esclamò deliziata Margo. «Scommetto che tra questa gente ci sono dei nuovayorkesi.»

«Arrivati freschi freschi,» ammise Paul, squadrando con espressione diffidente la parete di roccia e terriccio, mentre parcheggiava accanto all'ultima automobile. «Non hanno avuto neppure il tempo di conoscere le frane della California.»

Margo balzò a terra, tenendo in braccio Miao. Paul la seguì porgendole il giacchettino.

«Non mi serve,» disse Margo. Senza commenti, lui lo piegò e lo appoggiò sul braccio.

La terza lanterna verde era sulla spiaggia, molto più avanti, accanto a una macchia d'erba. La spiaggia era piatta e uniforme. Finalmente essi poterono udire il fruscio delle onde… poco più d'increspature del mare, a giudicare dal rumore. Miao miagolò ansiosamente. Margo le parlò in tono sommesso e persuasivo.

Subito dopo le automobili, le alture s'inerpicavano ripide a destra, e la spiaggia livellata le seguiva verso l'interno. Paul si rese conto che dovevano trovarsi all'imboccatura del canale che avevano attraversato due volte, prima di lasciare l'autostrada. A una certa distanza, oltre il canale, il terreno ricominciava a salire. Ancor più lontano, egli poté vedere una luce rossa ammiccare, molto in alto, e, molto più in basso, riuscì a cogliere lo scintillio di un reticolato. Scoprì che queste prove dell'esistenza di Vandenberg Due producevano su di lui un effetto oscuramente rassicurante.

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