— Forse — disse George, annuendo gravemente, — e forse no.
Myshtigo rivolse altrove la sua attenzione, scuotendo la testa. Hasan aveva liberato parzialmente dall’involucro il suo robot golem (Rolem), e giocherellava coi controlli. Ellen aveva infine rinunciato ai vestiti e si crogiolava al sole, lasciandosi tutta abbrustolire. Parrucca Rossa e Dos Santos stavano tramando qualcosa, dall’altra parte dell’imbarcazione. Quei due non hanno mai un semplice incontro: si tratta sempre d’appuntamenti. La nostra feluca si muoveva lentamente sull’abbagliante sentiero d’acqua che si snoda di fronte ai grandi colonnati grigi di Luxor e io decisi che era tempo di condurla a terra e vedere cosa ci fosse di nuovo tra le tombe e i templi in rovina.
I sei giorni seguenti furono pieni di fatti e, a modo loro, indimenticabili, estremamente attivi, e belli e brutti; come può esserlo un fiore, con i petali tutti intatti e una nera macchia di putrefazione nel centro. Proprio così…
Myshtigo deve aver osservato tutte le maledette pietre conficcate nei sei chilometri della Strada per Luxor. Nell’arsura del giorno e al chiaro delle torce circumnavigammo le rovine, disturbando pipistrelli, serpenti ed insetti; ossessionati dal monotono linguaggio del vegano che continuava a prendere note. Di notte ci accampavamo sulla sabbia, erigendo un perimetro di allarme elettronico di duecento metri e mettendo due guardie. Il boadrillo è un animale a sangue freddo; le notti erano gelide. Sicché il pericolo esterno era relativo.
Enormi fuochi da campo illuminavano la notte nelle zone che sceglievamo, perché il vegano voleva le cose primitive; tanto per creare dell’atmosfera, immagino. Le Lance erano parecchio indietro, a sud. Le avevamo sistemate in un posto che conoscevo, lasciandole alla sorveglianza dell’Ufficio, e avevamo affittato la feluca per il viaggio, ripetendo a modo nostro il percorso degli Dèi-Re da Karnak a Luxor. Di notte, Hasan faceva pratica con l’ assagai che aveva barattato con un grosso nubiano, oppure si spogliava fino alla cintola e combatteva per ore col suo instancabile golem.
Degno avversario, il golem. Hasan lo aveva programmato sul doppio della forza media d’un uomo, e aveva accelerato del cinquanta per cento la velocità dei suoi riflessi. La sua «memoria» conteneva centinaia di prese, e il regolatore interno gl’impediva, almeno teoricamente, di uccidere o storpiare l’avversario; il tutto grazie ad una serie d’afferenti chimico-elettrici, equivalenti ai nostri nervi, che gli permettevano di calcolare perfettamente la pressione delle sue mani e di non arrivare mai a spezzare un osso o recidere un tendine. Rolem era alto circa un metro e sessantacinque e pesava una novantina di chili; costruito su Bakab, costava un sacco di soldi. Era colore del pane non ancora cotto, aveva un viso che era la caricatura d’un viso umano, e il cervello era sistemato in basso, dove si troverebbe l’ombelico se i golem avessero ombelico, per proteggere la materia cerebrale dai colpi della lotta greco-romana. Ma anche così, potevano succedere incidenti. Certa gente è stata uccisa da quegli affari, quando qualcosa va a pallino nel cervello o negli afferenti, o semplicemente perché tentavano di liberarsi o tirarsi indietro, fornendo al golem la pressione in più sufficiente per uccidere. Io ne avevo tenuto uno per quasi un anno, programmato per la boxe. Avevo l’abitudine di passarci un quarto d’ora o giù di lì ogni pomeriggio. Ormai lo consideravo quasi una persona. Poi un giorno tentò di farmi la forca e io gli restai addosso per più d’un’ora e alla fine gli staccai la testa. Quell’accidente continuò a tirare pugni, e allora smisi di pensare a lui come ad un amichevole avversario da allenamento. È una sensazione bestiale boxare con un golem senza testa, lo sapete? Un po’ come svegliarsi da un sogno delizioso e trovare un incubo accoccolato ai piedi del letto. Non è che «veda» sul serio l’avversario con quelle specie di occhi che ha; è tutto inguainato da un mesenterio-radar piezoelettrico, e «registra» le cose con l’intera superficie. Eppure la morte di un’illusione tende a sconcertarmi. Misi a riposo il mio, e non lo riaccesi mai più. Lo rivendetti ad un mercante di cammelli per una cifra piuttosto buona. Non so se sia mai riuscito a riattaccargli la testa. Ma era un turco: quindi, chi se ne frega?
Comunque Hasan combatteva con Rolem, e tutti e due splendevano nella luce del fuoco, e noi stavamo seduti su coperte a guardare, e ogni tanto i pipistrelli svolazzavano bassi, come grandi, veloci mucchi di cenere, e nubi emaciate coprivano la luna come pesanti tendaggi, e poi s’allontanavano di nuovo. Questa era la scena la terza notte, quando impazzii.
Me ne ricordo solo come ci si può ricordare un paesaggio di campagna intravisto di passaggio una sera di tarda estate, sotto un temporale: una serie d’istantanee isolate, traboccanti di luce…
Dopo aver parlato con Cassandra per quasi un’ora intera, conclusi la trasmissione con la promessa di recuperare il pomeriggio seguente una Lancia, e passare la notte a Kos. Ricordo le nostre ultime parole.
— Fai attenzione, Konstantin. Ho fatto brutti sogni.
— Tranquilla, Cassandra. Buonanotte.
E chi lo sa se i suoi sogni non erano davvero la manifestazione d’un’onda d’urto temporale, che si muoveva all’indietro da una scossa di 9,6 gradi Richter?
Con un certo bagliore di crudeltà negli occhi, Dos Santos applaudì quando Hasan rovesciò Rolem sul terreno, provocando una gigantesca scossa. Ma il movimento del terreno continuò anche parecchio tempo dopo che il golem s’era rimesso in piedi e si preparava ad un altro combattimento, muovendo a serpente le braccia in direzione dell’arabo. Il suolo continuava a sussultare.
— Che forza! La sento ancora! — gridò Dos Santos. — Olé!
— È un movimento sismico — disse George. — Anche se non sono un geologo…
— Il terremoto! — strillò sua moglie, lasciando cadere un dattero non pastorizzato con cui stava imboccando Myshtigo.
Non c’era ragione di correre, non c’era posto dove correre. Non c’era nulla nelle vicinanze che ci potesse crollare addosso. Il terreno era piatto e completamente spoglio. Così restammo seduti a sobbalzare in su e in giù, e a venire ogni tanto sbattuti forte a terra. I fuochi fecero cose sorprendenti.
Scaduto il tempo di programmazione Rolem si spense, e Hasan venne a sedere vicino a George e a me. Le scosse durarono quasi un’ora, e ritornarono con meno forza diverse altre volte, durante la notte. Cessata la prima ondata, prendemmo contatto con il porto. Ci dissero che gli strumenti indicavano l’epicentro del fenomeno ad una notevole distanza da noi, a nord.
Una bella distanza, accidenti.
… Nel Mediterraneo.
Nell’Egeo, per essere più precisi.
Mi sentii male, e stetti male.
Tentai di parlare con Kos.
Niente.
La mia Cassandra, la mia adorata signora, la mia principessa… Dov’era? Per due ore cercai di scoprirlo. Poi il porto mi chiamò.
Era la voce di Lorel, non quella di un qualsiasi operatore di guardia.
— Uh… Conrad, non so come dirti esattamente quello che è successo…
— Parla — dissi, — e fermati quando hai finito.
— Un satellite è passato dalle tue parti una dozzina di minuti fa — gracchiò tra le scariche. — Diverse isole dell’Egeo non erano più presenti nelle immagini che trasmetteva…
— No — dissi.
— Temo che Kos fosse una di quelle.
— No — ripetei.
— Mi spiace — continuò, — ma sembra che le cose stiano così. Non so che altro dire…
— Mi basta — dissi. — È tutto. È quanto. Arrivederci. Parleremo più tardi. No! Credo… No!
— Aspetta! Conrad!
Allora impazzii.
I pipistrelli, liberati dal ventre della notte, mi svolazzavano attorno. Stesi avanti la destra e ne uccisi uno mentre volava nella mia direzione. Aspettai qualche secondo e ne uccisi un altro. Poi raccolsi con entrambe le mani un grosso sasso e stavo per fracassare la radio quando George mi mise una mano sulla spalla, e allora lasciai cadere il sasso e scrollai via la sua mano e lo colpii sulle labbra col dorso della sinistra. Non so cosa successe di lui, ma mentre mi piegavo per tornare a raccogliere il sasso udii dietro di me il rumore di passi. Mi piegai su un ginocchio e mi ci bilanciai sopra, raccattando una manciata di sabbia per gettarla negli occhi di qualcuno. Erano tutti lì: Myshtigo e Parrucca Rossa e Dos Santos, Rameses, Ellen, tre impiegati statali indigeni, Hasan, e s’avvicinavano in gruppo. Qualcuno gridò «Separiamoci!» quando videro la mia faccia, e sparirono.
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