Roger Zelazny - Io, Nomikos, l'immortale

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Io, Nomikos, l'immortale: краткое содержание, описание и аннотация

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Anche pubblicato como “Io, l’immortale”.
“Io, Nomikos, l’immortale” è la secca risposta che Conrad Nomikos dà a chiunque voglia indagare sull’enigma del suo passato oscuro e misterioso. Tuttavia l’unica cosa che si sa con certezza sul suo conto è forse proprio questa: che il suo vero nome non è Conrad. Chi egli sia in realtà è una domanda cui è impossibile rispondere. Secondo alcuni egli ha avuto un tempo un nome diverso, quello del liberatore della Terra, l’uomo che ha combattuto contro l’impero stellare di Vega conquistando l’indipendenza del nostro mondo; secondo altri egli è invece Karaghiosis l’assassino; l’ipotesi più ardita è che si tratti di un essere vecchio quanto la storia della Terra, forse addirittura del mitico e temibile dio Pan! Per il momento Conrad deve fare da guida a un inviato del pianeta Vega, Cort Myshtigo, e condurlo a visitare le bellezze della Grecia antica e dell’antico Egitto rimaste ancora intatte dopo la breve guerra atomica che ha popolato di crateri radioattivi e di mostri mutanti il nostro pianeta.
Ma i fini dell’ambasciatore vegano in realtà sono ben diversi da quelli dichiarati: da questa visita dipende il futuro stesso dei Terrestri e la posizione che la Terra avrà tra i pianeti della Galassia, e il ruolo di Conrad Nomikos sarà molto più importante di quello di semplice accompagnatore.
Vincitore del premio Hugo per il miglior romanzo in 1966.

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Allora diventarono tutti quelli che avevo odiato; potevo sentirlo. Vedevo altri visi, sentivo altre voci. Chiunque avessi mai conosciuto, odiato, desiderato d’uccidere, ucciso, era risorto lì davanti al fuoco, e soltanto il bianco dei loro denti si lasciava distinguere nell’ombra che s’addensava sui loro volti mentre sorridevano e mi venivano incontro, reggendo ciascuno in mano una condanna diversa, e morbide, persuasive parole sulle loro labbra; così gettai la sabbia sul più vicino e gli volai addosso.

Il mio pugno lo fece cadere all’indietro, e poi due egiziani mi furono addosso da entrambi i lati.

Li scrollai via, e con l’angolo del mio occhio più gelido vidi un enorme arabo stringere in mano qualcosa che sembrava un avocado nero. Lo stava agitando verso di me, così mi chinai verso il basso. Quello veniva diritto nella mia direzione: gli diedi una botta nello stomaco, e lo feci cadere disteso. Poi i due uomini che mi ero tolto di torno mi furono di nuovo addosso. Una donna stava gridando in distanza, da qualche parte, ma non riuscivo a vederla.

Mi liberai il braccio destro e lo usai per picchiare qualcuno, e l’uomo cadde e un altro prese il suo posto. Diritto davanti a me un uomo blu tirò una pietra che mi colpì sulla spalla, ed ebbe l’unico effetto di rendermi ancor più furioso. Sollevai nell’aria un corpo che scalciava e lo scaraventai contro un altro, poi colpii qualcuno col pugno. Mi diedi una scrollata. Il mio mantello era lacero e sozzo; lo strappai del tutto e me lo cavai di dosso.

Mi guardai attorno. Avevano smesso di venirmi incontro, e non era giusto. Non era giusto che la smettessero proprio allora, quando avevo tanta voglia di spaccare tutto. Così raccolsi l’uomo che giaceva ai miei piedi e lo riscaraventai per terra. Poi lo raccolsi di nuovo e qualcuno gridò: — Ehi! Karaghiosis! — e cominciò ad insultarmi in un greco approssimativo. Lasciai ricadere l’uomo sul terreno e mi voltai.

E là, davanti al fuoco, c’erano due di loro: uno alto con la barba, l’altro tozzo e pesante e calvo, fatto d’una miscela di stucco e terra.

— Il mio amico dice che ti farà a pezzi, greco! — gridò quello alto, facendo qualcosa alla schiena dell’altro.

Mi mossi verso di loro e l’uomo di stucco e fango mi saltò addosso.

Mi colse di sorpresa, ma mi ripresi in fretta e lo colpii sotto le ascelle e lo feci volare da parte. Ma anche lui si rimise in piedi velocemente come me, e ritornò all’attacco e mi diede un colpo dietro il collo con la mano. Gli restituii la pariglia, afferrandogli poi il gomito. Restammo a lottare abbracciati, e accidenti se era forte.

Poiché era forte, cominciai a cambiare tattica, per misurare la sua resistenza. Era anche veloce: rispondeva ad ogni mia mossa quasi nello stesso momento in cui la pensavo.

Spinsi di colpo in alto le braccia tra le sue con tutta la forza che avevo, e indietreggiai appoggiandomi sulla gamba rinforzata. Divisi e liberi per un momento, orbitammo l’uno attorno all’altro, cercando entrambi l’apertura nella difesa del nemico.

Tenevo basse le braccia, ed ero tutto piegato in avanti a causa della sua statura ridotta. Per un momento le mie braccia si trovarono troppo vicine ai fianchi, e lui mi venne contro con una velocità che non avevo visto in nessun altro, mai, e mi chiuse il corpo in una morsa che mi fece uscire l’anima dai pori e mi causò un dolore tremendo ai fianchi.

Le sue braccia continuavano a stringermi, e sapevo che in poco tempo mi avrebbe spezzato la schiena se non fossi riuscito a liberarmi. Strinsi le mani a pugno e gliele ficcai contro il ventre e spinsi. La sua stretta divenne più dura. Feci un passo indietro e sollevai in avanti entrambe le braccia. Le mie mani si levarono più alte tra i nostri due corpi e appoggiai il pugno destro contro il palmo della mano sinistra e li strinsi assieme e tirai in alto le braccia. La testa prese a girarmi mentre le braccia si sollevavano, e mi sentii le reni in fiamme. Poi tesi tutti i muscoli della schiena e delle spalle e sentii la forza scendermi giù per le braccia fino alle mani, e le scaraventai su verso il cielo: il suo mento si trovava sulla loro traiettoria, ma non le fermò.

Le braccia mi volarono sopra la testa e lui cadde all’indietro. La forza di quell’enorme colpo che gli era arrivato sul mento avrebbe dovuto spezzare il mento di qualsiasi uomo, e in effetti anche lui era caduto per terra.

Ma immediatamente si rimise in piedi, e seppi allora che non era un mortale, ma una di quelle creature non nate da donna: invece, ora lo sapevo, era stato generato come Anteo dal ventre della Terra stessa.

Mi scagliai con le mani sulle sue spalle, e lui cadde in ginocchio. Poi lo colpii sulla gola e mi portai alla sua destra e col ginocchio sinistro cercai di spezzargli la schiena. Mi tesi in avanti, appoggiandomi sulle sue cosce e spalle, tentando di finirlo.

Ma non potevo. Continuò a piegarsi sinché la testa gli toccò il suolo, e io non potei schiacciarlo più oltre.

Non è possibile che la schiena di qualcuno si pieghi a quel modo senza spezzarsi, ma la sua lo fece.

Poi ritirai il ginocchio e lo lasciai andare, e lui mi fu di nuovo addosso. Immediatamente.

Così tentai di strangolarlo. Le mie braccia erano molto più lunghe delle sue. Lo afferrai per la gola con entrambe le mani, mentre i pollici gli premevano contro quella che doveva essere la trachea. Ma lui riuscì ugualmente a far scivolare le sue braccia tra le mie, fino al gomito e più in dentro, e cominciò a spingere in avanti. Io continuai a stringere, aspettando che la faccia gli diventasse nera e gli occhi gli schizzassero dalle orbite. I miei gomiti cominciarono a cedere sotto la sua inarrestabile pressione.

Poi le sue braccia ebbero partita vinta, e lui mi afferrò per la gola.

E restammo lì a soffocarci l’un l’altro. Solo che era impossibile strangolare lui.

I suoi pollici erano come dei chiodi che mi penetrassero nei muscoli della gola. Sentii che il viso s’infiammava. Le tempie cominciarono a rombarmi.

Molto in distanza udii un grido:

— Fermalo, Hasan! Non dovrebbe fare così!

Sembrava la voce di Parrucca Rossa. Comunque, quello è il nome che mi venne in testa: Parrucca Rossa. Il che significava che Dos Santos era da qualche parte nelle vicinanze. E lei aveva detto: «Hasan», un nome scolpito in un’altra immagine che divenne improvvisamente chiara.

Tutto ciò significava che io ero Conrad e mi trovavo in Egitto, e la faccia priva d’espressione che mi ballonzolava davanti era quella del lottatore-robot. Rolem, una creatura che poteva essere programmata sul quintuplo della forza umana e probabilmente lo era. Una creatura che poteva avere i riflessi d’un gatto pieno d’adrenalina, e senza dubbio li stava usando a dovere.

Solo che un golem non avrebbe dovuto uccidere, incidenti a parte, e Rolem stava tentando d’uccidermi.

Il che significava che il suo regolatore interno non funzionava.

Abbandonai la presa, visto che non serviva, e piazzai il palmo della mano sinistra sotto il suo gomito destro. Poi raggiunsi l’estremità delle sue braccia e gli afferrai il polso destro con l’altra mano, e mi abbassai più che potevo e diedi uno strattone in su spingendolo per il gomito e tirandolo per il polso.

Quello perse l’equilibrio e precipitò verso destra, mollando la presa sulla mia gola. Sempre tenendolo per il polso, gli feci girare il braccio in modo che il gomito si trovasse rivolto in alto. Poi con la mano, dopo aver chiamato a raccolta tutte le mie forze, cercai di spezzargli il braccio, portandogli il polso ad angolo retto col gomito.

Niente. Non ci fu alcun rumore di frattura interna. Il suo braccio cedette semplicemente e assunse un’angolatura innaturale.

Gli lasciai il polso e lui cadde in ginocchio. Poi si rialzò in piedi, velocissimo, e il braccio gli si raddrizzò e tornò in posizione normale.

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