«No» disse Savi, nella radio della tuta, con un tono che spazzò le ultime speranze di Daeman. «Era Calibano in persona.»
«Quei corpi…» cominciò Harman. «Quinta Ventina?»
«Alcuni parevano anche più giovani» bisbigliò Savi. Impugnava la pistola, girava su se stessa, scrutava nel buio fra gli ondeggianti steli dei fuchi.
«Forse la creatura soleva mietere solo le quinte Ventine» mormorò Harman. «Ma si è fatta più audace. Impaziente. Affamata.»
«Gesù, Gesù, Gesù, Gesù» sibilò Daeman. Era una delle più antiche invocazioni note alla razza umana, anche se lui non ne conosceva il significato. Gli battevano i denti.
«Hai ancora fame?» chiese Savi. Forse tentava di calmare Daeman, con un’approssimazione di umorismo. «A me è passata.»
«A me no» disse Calibano sulla loro frequenza radio. Emerse dai fuchi, lanciò su di loro una rete, facendo cadere di mano la pistola a Savi, e li tirò a sé come pesci.
Mahnmut trovò strano non avere Orphu in collegamento radio. Si augurò che l’amico fosse al sicuro.
Gli dèi irruppero nella stanza un secondo dopo che l’umano, che non si era presentato, si era telequantato fuori. Mahnmut non credeva nell’invisibilità, se non sotto forma di buon materiale antiradar, ma si accorse d’essere invisibile agli dèi e dee che affollarono la stanza e s’inginocchiarono intorno a Era. Mahnmut scivolò fra gambe abbronzate e bianche tuniche e cominciò a rintracciare la via nel labirinto di corridoi. Scoprì che era molto duro camminare come un bipede quando si era invisibili (continuava a controllare dov’erano i suoi piedi e non li vedeva da nessuna parte) perciò si mise a quattro zampe e percorse a passo felpato i corridoi.
Quando era stato scortato in cella, aveva approfittato del fatto che gli dèi erano rallentati dall’ingombrante Orphu e così aveva visto dove erano conservati la trasmittente e il Congegno. La stanza si trovava in un corridoio laterale e per raggiungerla bastava svoltare a destra tre volte.
Raggiunto il magazzino, Mahnmut vide che l’androne era vuoto, anche se qualche dio passava spesso nei corridoi vicini; allora attivò il laser da polso a basso voltaggio per tagliare la porta.
Appena iniziato, si rese conto che la scena sarebbe sembrata davvero strana a un dio che fosse capitato lì: un raggio rosso di venti centimetri sospeso a mezz’aria che praticava un foro circolare nel meccanismo di chiusura dell’enorme porta, senza nessuno in vista.
Il laser non sarebbe mai riuscito a tagliare da parte a parte la spessa porta, ma incise un bel cerchio di cinque centimetri sopra il congegno di chiusura (Mahnmut distinse a orecchio il meccanismo a stato solido spostarsi lungo frequenze subsoniche) e la porta si aprì verso l’interno. Mahnmut entrò, la chiuse dietro di sé e dopo qualche secondo appena udì rumore di passi nel corridoio. I passi tirarono dritto. Mahnmut si tolse l’Elmo di Ade per vedere meglio anziché procedere a tastoni.
Quello non era un locale vuoto per prigionieri. La stanza, lunga almeno duecento metri, era piena di lingotti d’oro, mucchi di monete, forzieri con pietre preziose, montagnole di manufatti di bronzo brunito, statue di marmo raffiguranti dèi e uomini, grandi conchiglie marine dalle quali perle traboccavano sul lucido pavimento, cocchi d’oro smantellati, colonne di vetro piene di lapislazzuli, centinaia di altri tesori, tutti sfavillanti per la luce delle fiamme in una ventina di tripodi d’oro.
Mahnmut non badò a quelle ricchezze e corse alla trasmittente di metallo opaco e al Congegno un po’ più piccolo. Non poteva portarli fuori di lì tutt’e due (anche se era invisibile, due oggetti metallici librati nel corridoio avrebbero dato nell’occhio) e aveva solo qualche secondo per darsi da fare; allora trascinò da una parte il Congegno, trovò il connettore giusto e avviò la trasmittente, con un comando standard a basso voltaggio.
La primitiva IA della trasmittente accettò il comando, lasciò cadere il rivestimento di nanocarbonio e mostrò complessi meccanismi ripiegati su se stessi. Mahnmut arretrò, mentre la trasmittente si dondolava in avanti, con la grazia di un acrobata umano, estendeva gambe a treppiede e bracci di energia felschenmass chevkoviana, infine apriva un’antenna a disco larga otto metri. Mahnmut si rallegrò di non avere fatto il tentativo in una stanza piccola.
Ma si trovava pur sempre in un locale privo di finestre, forse sotto tonnellate di marmo e granito e roccia marziana, forse di spessore troppo grande per lasciar passare il segnale. In ogni caso non c’era campo stellare da usare per l’orientamento. Mentre l’antenna ronzava e cercava, Mahnmut sentì crescere la propria ansia… e non solo perché dai corridoi giungevano altre grida. Quello sarebbe stato il primo posto dove gli dèi l’avrebbero cercato (o dove si sarebbero telequantati) dopo essersi accertati delle condizioni di Era. Se la trasmittente non riusciva a stabilire un contatto da lì, la missione di Mahnmut e di Orphu era probabilmente fallita. Tutto dipendeva dalla tecnologia della trasmittente.
L’antenna dondolò, ronzò, si posizionò un’ultima volta e agganciò qualcosa a circa venti gradi dalla verticale. Accanto ai connettori fisici comparve un pannello di comando virtuale e si accesero luci spia verdi.
Mahnmut si collegò e scaricò tutto il contenuto delle sue banche di memoria riguardanti il viaggio, conversazioni con Orphu, frammenti di dialoghi con Koros III, Ri Po o gli dèi, immagini registrate fin dalla partenza dallo spazio gioviano. Con la banda larga, occorsero meno di quindici secondi per completare il riversamento.
Grazie ai sensori, Mahnmut percepì che nella trasmittente si formava il campo di energia chevkoviana antimateria e si domandò se gli dèi potessero rilevarlo. In ogni caso, sarebbe stato scoperto nel giro di minuti, se non prima. E non aveva modo di lasciare la stanza e l’edificio portando con sé il Congegno. Poteva innescarlo subito o rimandare a più tardi. Nell’uno e nell’altro caso, qualsiasi cosa avvenisse, lui si sarebbe trovato al centro.
Ma per il momento, si disse, non doveva pensare al Congegno. Doveva pensare alla trasmittente.
Una miriade di spie luminose passò al verde, suggerendo a Mahnmut che la fonte d’energia era al massimo della carica, che i dati venivano criptati e che il bersaglio, probabilmente lo spazio gioviano, forse addirittura Europa, era agganciato. Lui almeno se lo augurava.
Battevano alla porta.
"Perché non si telequantano dentro?" pensò Mahnmut. Non perse tempo a cercare una spiegazione. Sostituì le mani con conduttori metallici isolati, trovò la porta d’attivazione finale e trasmise la carica di messa in moto, trentadue volt modulati.
L’antenna emise un raggio giallo largo undici metri. La colonna di pura energia chevkoviana aprì un foro nel soffitto e distrusse altri tre piani, prima di saettare verso le stelle. Poi si spense e la trasmittente si autodistrusse, divenne una pozza di metallo fuso.
I filtri polarizzanti di emergenza erano entrati in funzione nel giro di nanosecondi durante la trasmissione, tuttavia Mahnmut rimase accecato per qualche attimo. Poi vide in alto la serie di fori di sbieco, fumanti, e il cielo; allora, per la prima volta, ebbe un briciolo di speranza.
Gli dèi sfondarono la porta verso l’interno e il punto della stanza del tesoro dove si trovava Mahnmut si riempì di fumo e di vapore.
Il moravec usò quei pochi secondi di copertura fornita dal fumo per prendere il Congegno, che nella gravità terrestre sarebbe pesato dieci chili, ma su Marte ne pesava solo tre; si acquattò, contrasse più che poteva le molle nelle gambe posteriori, senza badare alle tolleranze di progettazione, e con un balzo si lanciò tra i fori fumanti, volando in alto e attraversando quindici metri di marmo frantumato e di granito liquefatto.
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