«Qualcosa del genere» rispose Harman.
Savi fece un cenno in direzione del cadavere. «Sembra proprio che non dovrai negoziare con i post.»
«Pensi che lo spedale sia automatizzato?» chiese Harman. «Che negli ultimi secoli siano stati i servitori a mantenerlo in funzione, faxandoci su, riparandoci per le cinque Ventine assegnateci e poi faxandoci di nuovo alla nostra monotona vita?»
«Saliamo a scoprirlo» propose la vecchia.
Entrarono nel lucente rettangolo dalle pareti di vetro, varcando un bianco quadrato di parete semipermeabile, simile a quello nella camera d’equilibrio.
Era lo spedale. Non solo aveva luce e aria, ma anche, chissà come, un decimo della gravità terrestre. Attraversata la parete, Daeman cadde sulle mani e sulle ginocchia, incapace di adattarsi alla leggera, ma persistente, attrazione gravitazionale. L’improvviso cambiamento, più la benvenuta vista dei fin troppo familiari servitori, più il terrore di tornare nello spedale così presto dopo l’episodio dell’allosauro gli rendevano le gambe troppo deboli per reggersi in piedi anche in quel campo gravitazionale da piscina.
Savi e Harman passarono di vasca in vasca. Savi si tolse la maschera osmotica e provò a respirare. «L’aria è rarefatta e ha un puzzo orribile» disse, con voce che risuonò strana e stridula. «Servirà di sicuro a qualcosa, ma è troppo viziata per respirarla. Non toglietevi le maschere.»
Daeman non ebbe bisogno di farsi pregare: tenne addosso la maschera.
I servitori non badarono a loro e continuarono ad affaccendarsi intorno a vari pannelli di comando virtuali. Condutture trasparenti e tubi mostravano liquidi verdi e rossi che scorrevano nelle vasche e ne uscivano. Harman guardò in ogni vasca, alta tre metri. I corpi umani in ciascuna di queste erano, per la maggior parte, quasi perfetti, ma non formati: pelle troppo liscia, zone craniali e pubiche glabre, occhi bianchi. Soltanto alcune figure galleggianti erano quasi complete e i loro occhi, che mostravano colore e una torpida intelligenza, parvero ammiccare ai tre estranei.
Daeman camminò dietro gli altri due, tenendosi più lontano dalle vasche. Guardò quei proto-umani, ricordò le immagini annebbiate che lui stesso aveva visto dalla vasca solo qualche giorno prima e rabbrividì di nuovo, arretrando fino a sbattere contro un bancone. Un servitore si librò intorno a lui, ma non gli badò.
«È chiaro che non sono programmati per trattare con esseri umani che non si trovino nelle vasche» disse Savi. «Ma, se interferiste nel loro lavoro, probabilmente farebbero qualcosa per togliervi dai piedi.»
All’improvviso una luce verde palpitò su una vasca che conteneva un corpo interamente ricostruito, una giovane donna con occhi celesti, capelli e peli rossi, e il liquido cominciò a ribollire violentemente. L’attimo dopo, il corpo era sparito. Passò ancora qualche secondo e nella vasca si materializzò un altro corpo, stavolta un pallido maschio dagli occhi fissi e morti, con una ferita sulla fronte.
«Hanno un portale fax in ogni vasca!» esclamò Daeman. Poi capì che non poteva essere diversamente: era quello il modo per portare su i corpi allo scadere di ogni Ventina o dopo una grave ferita. O la morte. «Potremmo usare questi nodi fax.»
«Forse potresti usarlo tu» disse Savi, scrutando da vicino una vasca. «E forse neppure tu. Il fax ha il codice del corpo nella vasca. Il macchinario potrebbe non riconoscere il tuo codice e buttarti fuori, semplicemente.»
Liquidi colorati fluirono nella vasca con il nuovo cadavere. Gruppi di minuscoli vermi azzurri comparvero da un’apertura, nuotarono fino al morto e s’infilarono nel cranio rotto e nella carne bianca ed enfiata.
«Vuoi ancora il tuo supplemento di vasca?» chiese Savi a Harman.
Harman si limitò a sfregarsi il mento e a scrutare le file di vasche lucenti. A un tratto segnò a dito. «Dio santo!» esclamò.
I tre si avvicinarono lentamente, metà camminando metà galleggiando nella gravità, bassa ma non trascurabile. Daeman non credette ai suoi occhi, semplicemente.
Un terzo delle vasche da quella parte conteneva liquido, ma non corpi umani. Però c’erano corpi, parti di corpo per meglio dire, in ogni spazio disponibile: sul pavimento, su tavoli, mensole, perfino su servitori disattivati. Alla prima occhiata, Daeman pensò… si augurò… che fossero altri resti mummificati dei post, per quanto orribile fosse l’idea; ma quelle non erano mummie. E neppure resti di post-umani.
Lo spedale era il buffet di qualcuno.
Disposte sul lungo tavolo davanti a loro c’erano parti di corpo umano, bianche, rosa, rosse, umide, sanguinanti, fresche. Decine di figure su quel tavolo, maschi e femmine, all’apparenza ancora bagnate per la permanenza nelle vasche, erano sventrate, organi estratti, carne strappata a morsi da costole insanguinate. Sotto il tavolo c’era una testa umana, occhi azzurri sbarrati in quello che forse era stato un istante di shock, mentre qualcuno, uomo o animale, sbranava il corpo al quale era attaccata. Una piccola pila di mani giaceva davanti a una sedia girevole dall’alta spalliera, rivolta dall’altra parte rispetto al tavolo.
Prima che uno di loro potesse aprire bocca, la sedia ruotò. Per un secondo Daeman pensò che fosse un altro corpo umano messo lì seduto, ma questo era verdastro, intatto e respirava. Occhi gialli ammiccarono. Avambracci incredibilmente lunghi e dita munite d’artigli si distesero. Una lingua da lucertola saettò su lunghi denti.
«Forse credevi ch’io fossi come te?» disse quello che, si rese conto Daeman, era di sicuro il vero Calibano. «Hai pensato male.»
Savi e Harman afferrarono Daeman e se lo tirarono dietro, mentre si davano la spinta e fuggivano in fondo allo spedale e questi urlava come aveva urlato durante tutto il viaggio fino all’anello. Colpirono a corpo morto la parete bianca, la oltrepassarono senza fermarsi, sentirono le termotute restringersi quando si trovarono nel gelido vuoto quasi completo fuori dello spedale, si diedero una forte spinta contro la parete trasparente e si tuffarono verso il terreno, novanta metri più in basso.
Savi e Harman lasciarono le braccia di Daeman e si fermarono su una piattaforma a venti metri dalla base della città. Daeman ebbe il tempo di notare le mummie galleggianti tutt’intorno, pezzi della gola e del ventre strappati da morsi della stessa misura di quelli degli umani nello spedale, e capì di essere sul punto di vomitare nella maschera osmotica; poi gli altri due trovarono un oggetto solido per darsi la spinta e nuotarono verso le tenebre più avanti.
Disperato, Daeman si tolse la maschera e vomitò nel vuoto e nella puzzolente aria gelida. Si sentì scoppiare i timpani e gonfiare gli occhi, e si rimise a posto la maschera (sentendo il puzzo del proprio vomito e della propria paura) e con un calcio si lanciò dietro Savi e Harman. Non voleva correre. Voleva solo rannicchiarsi, galleggiare strettamente appallottolato e vomitare di nuovo. Ma perfino lui si rese conto di non avere quella possibilità. Agitando disperatamente le braccia, girando la testa a guardare le luci dello spedale, nuotò e corse e scalciò per salvarsi la vita.
Calibano li raggiunse nell’angolo più buio della città, dove i letti di fuchi ondeggiavano, mossi dalla forza di Coriolis dell’asteroide in lenta rotazione. Lì tutte le pareti della città erano trasparenti e mostrarono per vari minuti la Terra imbiancata di nubi e poi il buio interrotto solo dalle gelide stelle. Fu nel buio che Calibano giunse.
I tre si erano rannicchiati vicini nell’oscurità.
«L’avete visto uscire dallo spedale?» ansimò Savi.
«No.»
«Non ho visto niente mentre scappavamo» ansimò Harman.
«Era un calibani?» ansimò Daeman. Si rese conto di piangere e se ne fregò. Mise nella domanda l’ultima riserva di speranza.
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