«Mesi e anni o giorni e settimane?»
«Giorni e settimane.» Cerco di stimare quanti giorni passeranno prima che Achille uccida Ettore e Troia cada, se e quando la tabella di marcia dell’ Iliade si riassesterà. Non molti.
«Ora dicci… dimmi, o Uomo… quale sarà il mio destino dopo lo stupro di Ilio e di Cassandra» ordina, brusca, Cassandra.
Qui esito. Mi sento la bocca secca. «Il tuo destino?» ripeto.
«Il mio destino, o Uomo del Futuro» sibila la bellissima bionda. «Di sicuro, violentata o no, non sarò lasciata qui, mentre Andromaca sarà trascinata in schiavitù e la nobile Elena sarà reclamata di nuovo dal rabbioso Menelao. Che ne sarà di Cassandra, o Uomo?»
Cerco di umettarmi le labbra. "Può vedere il suo stesso destino?" mi chiedo. Non ho idea se il suo dono della profezia vada al di là della caduta di Troia. Qualcuno, credo il poeta e studioso Robert Graves, tradusse il nome Cassandra come "colei che intrappola gli uomini". Ma lei è anche una donna che ha avuto dagli dèi la maledizione di dire sempre la verità. Decido di fare la stessa cosa. «A causa della tua bellezza, Agamennone ti reclamerà come concubina» dico, con voce appena percettibile. «Ti porterà con sé in patria, come concubina.»
«Gli genererò figli, prima dell’arrivo?»
«Credo di sì» dico, suonando ridicolo alle mie stesse orecchie. Non faccio altro che mescolare Omero con Virgilio, Virgilio con Eschilo e tutti con Euripide. Diavolo, perfino Shakespeare ci provò, con questa storia. «Due gemelli» soggiungo, dopo una pausa. «Teledamo e… ah… Pelope.»
«E quando giungerò a Sparta, patria di Agamennone?» insiste Cassandra.
«Clitennestra ti ucciderà, con la stessa ascia con cui uccide Agamennone» dico, con voce più acuta di quanto non voglia.
Cassandra sorride. Non è un sorriso piacevole. «Prima o dopo avere decapitato Agamennone?»
«Dopo» rispondo. ’Fanculo. Se può sopportarlo lei, posso sopportarlo anch’io. Probabilmente sono un uomo morto in ogni caso. Ma userò lo storditore sul maggior numero possibile di quelle puttane, prima che mi buttino giù. «Clitennestra deve inseguirti per un poco» dico. «Ma alla fine ti raggiunge. E taglia la testa anche a te. E poi uccide i tuoi gemelli.»
Le sette donne mi fissano a lungo in silenzio e il loro sguardo è imperscrutabile. Mi riprometto di non giocare mai a poker con una di quelle donnacce. Poi Cassandra dice: «Sì, quest’uomo conosce il futuro. Se la sua visione e la sua presenza qui sono un dono degli dèi o un loro trucco per scoprire il nostro tradimento, non lo so. Ma dobbiamo fidarci di lui, per il nostro segreto. Il tempo che manca alla caduta di Ilio è troppo breve per fare altrimenti».
Elena annuisce. «Hock-en-bear-eeee, usa il medaglione per andare nel campo degli achei. Porta Achille a casa di Ettore, nel vestibolo della stanza del bambino, all’ora del prossimo cambio della guardia sulle mura di Ilio.»
Rifletto. Il gong rintocca e la guardia cambia a quelle che sarebbero le undici e mezzo antimeridiane. Ossia fra circa un’ora.
«E se Achille non vuole venire?» chiedo.
Lo sguardo collettivo che le donne riversano su di me è ora sette parti di disprezzo e tre di compassione.
Mi telequanto come se avessi il diavolo alle calcagna.
Non dovrei farlo, è una sciocchezza, e lo faccio soprattutto perché ho paura di affrontare Achille; ma per tutto l’interrogatorio di Cassandra ho ripensato con curiosità al piccolo robot sull’Olimpo. Certo, ho già visto sull’Olimpo cose bizzarre (anche senza contare dèi e dee, già abbastanza bizzarri per conto loro), come il gigantesco Guaritore a forma d’insetto. Ma un certo non so che nel piccolo robot, ammesso che sia un robot, mi ha colpito. Quel robot non pareva appartenere a nessuno dei due mondi fra i quali ho diviso il mio tempo negli ultimi nove anni, l’Olimpo e Ilio. Pareva più legato al mio mondo, al mio vecchio mondo. Al mondo reale. Non chiedetemi perché. Non ho mai visto un robot umanoide, se non nei film di fantascienza.
E poi, mi dico, ho un’ora di tempo, prima di portare Achille da Ettore. Mi metto l’Elmo di Ade e mi telequanto nella Grande Sala degli Dèi.
Il piccolo robot e gli altri congegni, compresa la grossa macchina a forma di granchio, non ci sono più, ma Zeus è ancora lì. Insieme a gran parte degli dèi, compreso il dio della guerra, Ares, che ricordavo nella vasca di guarigione accanto a quella di Afrodite.
"Madre misericordiosa" penso "dov’è adesso Afrodite?" Lei mi vede anche se indosso l’Elmo di Ade. Ha ordinato alla Musa di darmi l’elmo solo perché poteva rintracciarmi ogni volta che voleva. Sarà già fuori della vasca? "Oh, Cristo!"
Ares strepita con tutti gli dèi, mentre Zeus siede sul trono. «Là sotto regna la follia!» grida. «Manco qualche giorno e voi vi lasciate sfuggire di mano la guerra! Il Caos impera! Achille ha ucciso Agamennone e ha preso il comando degli eserciti achei. Ettore è in ritirata, mentre la vittoria dei troiani era un augusto ordine di Zeus.»
"Agamennone è morto? Achille ha il comando? Merda santa!" Non siamo più nell’ Iliade , caro mio.
«E gli automi che ti ho portato, signore Zeus? Questi… moravec?» chiede Apollo, con voce che echeggia nell’enorme sala. Vedo altri dèi e dee riempire i mezzanini in alto. La piscina-televisore incassata nel pavimento mostra scene di follia e di sangue nelle linee di battaglia troiane e nel campo argivo. Ma mi concentro sull’enorme, poderoso Zeus dalla barba bianca, assiso sul trono d’oro. Ha polsi massicci, come una scultura di Rodin in marmo di Carrara. Sono tanto vicino da vedergli i peli brizzolati sul petto nudo.
«Calma, Apollo, nobile arciere» romba il dio di tutti gli dèi. «Ho ordinato che gli automi moravec siano eliminati. Ormai Era li avrà già distrutti.»
"Può andare peggio di così?" mi chiedo.
E proprio in quel momento, affiancata da Teti, madre di Achille, e dalla mia Musa, entra nella sala Afrodite.
Daeman urlò per tutta l’ascesa.
Probabilmente anche Savi e Harman urlavano, non avrebbero potuto farne a meno, ma Daeman udiva solo il proprio grido. Le poltrone erano decollate in verticale, poi avevano cominciato a beccheggiare ruotando sull’asse costituito dal fulmine e Daeman — a faccia in giù, tremila metri sopra il verdeggiante bacino del Mediterraneo, senza smettere un secondo di urlare — si era sentito compresso con forza: un impedimento era causato dall’accelerazione, ma l’altro era una costante, generale pressione dovuta di sicuro a una sorta di campo di forza. Non solo lo schiacciava sui cuscini della poltrona che saliva a tutta velocità, ma gli premeva sul viso, sul petto, nella bocca, nei polmoni.
Daeman continuò a urlare.
Le tre poltrone ruotavano in senso antiorario intorno al massiccio dardo di bianca energia e all’improvviso Daeman si trovò a fronteggiare le stelle e gli anelli. Continuò a urlare: sapeva che la poltrona non avrebbe smesso di ruotare, che stavolta lui sarebbe caduto fuori e che la caduta sarebbe stata da un’altezza di decine di migliaia di metri.
Non cadde, ma urlò giù alla Terra, mentre volavano più in alto. La traiettoria pareva ora quasi piatta, quasi parallela alla superficie del pianeta così lontano, in basso. Era notte sopra l’Asia centrale, ma cumuli torreggiami, estesi per centinaia di chilometri, erano illuminati dall’interno, rapidi lampi che rischiaravano la rossa massa terrestre visibile fra la perlacea copertura di nubi. Daeman non sapeva che era l’Asia centrale. Le poltrone ruotarono di nuovo, gli mostrarono le stelle e gli anelli e un sottile strato di atmosfera, ora ben visibile in basso; poi il sole parve sorgere di nuovo, a ovest, con una diffrazione prismatica in quel menisco di atmosfera, vividi festoni rossi e gialli.
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