«Siedi e vedrai» disse Savi.
Daeman si accomodò cautamente. La spalliera della poltrona e gli spessi braccioli presentavano complicati intagli; nel bracciolo sinistro c’era un cerchio bianco e nel destro uno rosso. Daeman non toccò nessuno dei due.
«Quando avrò contato fino a tre» disse Savi «premete il pulsante bianco. Quello di sinistra, Daeman, se sei daltonico.»
«Non sono daltonico, maledizione.»
«Bene. Uno, due…»
«Un momento, un momento!» disse Daeman. «Cosa mi succede se premo il cerchio bianco?»
«Proprio niente» rispose Savi. «Ma dobbiamo premerlo nello stesso istante. Lo scoprii quando venni qui da sola. Pronti? Uno, due, tre.»
Tutti e tre premettero il pulsante bianco.
Daeman schizzò dalla poltrona e corse al bordo della piattaforma nera e poi di una piattaforma rossa, trenta passi più in là, prima di girarsi a guardare. Era rimasto assordato dal getto di energia dietro la poltrona. «Merda santa!» gridò, ma i due ancora in poltrona non avrebbero potuto sentirlo.
Era come un fulmine, pensò Daeman. Un bruciante getto di energia, del diametro di un metro, che sgorgava dal foro al centro del triangolo di poltrone e saliva nel cielo buio. Salì, salì sempre più in alto, poi s’incurvò verso ovest come un impossibile filamento al calor bianco e descrisse un arco, finché l’estremità non scomparve alla vista; ma la parte finale era sempre visibile e si muoveva, come se il fulmine fosse collegato a…
Era davvero collegato — capì Daeman, con un diluvio di paura che rischiò di fargli svuotare l’intestino — all’anello-e in movimento migliaia di chilometri più in alto. Collegato a una delle stelle, a una delle luci mobili, che ora correvano da ovest a est in quell’anello.
«Torna indietro!» continuava a gridare Savi per superare il crepitio e il rombo del filamento d’energia.
Daeman impiegò diversi minuti a tornare, a raggiungere la poltrona vuota, schermandosi gli occhi, con la sua ombra e quella della poltrona proiettate per quindici metri sul tetto piatto nero e rosso dalla luce accecante e crepitante. In seguito non seppe mai spiegare, nemmeno a se stesso, come e perché fosse tornato alla poltrona e perché avesse fatto ciò che aveva fatto dopo.
«Al tre premete il cerchio rosso» gridò Savi. Aveva i capelli ritti, che le frustavano la testa come corti serpenti. Per farsi udire, doveva urlare e vincere il fragore dell’energia. «Uno, due…»
"No, non posso farlo" si ripeteva Daeman, come una litania. "Non lo farò proprio."
«Tre!» gridò Savi. Premette il pulsante rosso. Harman premette il pulsante rosso.
"No!" pensò Daeman. Ma premette con forza il cerchio rosso.
Le tre poltrone di legno saettarono verso il cielo, ruotando intorno al crepitante, mutevole ombelico del fulmine, sfrecciando in alto con tale velocità che un bang sonico echeggiò sul fondo marino, facendo vibrare sugli ammortizzatori il crawler. Un secondo più tardi, meno di un secondo, le tre poltrone furono fuori vista, in alto, mentre il filo di pura energia bianca si torceva e si piegava e si arcuava per seguire i punti di luce che correvano a tutta velocità nell’anello orbitale equatoriale.
Il piccolo robot mi affascina e sono tentato di restare nella Grande Sala degli Dèi per scoprire che cosa succederà; ma non mi fido ad avvicinarmi perché gli dèi mi potrebbero sentire, in questo salone vasto e silenzioso. Il dialogo fra le divinità e il robot è ora in greco antico (gli dèi, almeno, Zeus compreso, usano la lingua che si parla qui e alla quale sono ormai abituato) ma riesco a cogliere solo qualche brano.
«… piccoli automi… giocattoli… dal Grande mare interno… andrebbero distrutti…»
Anziché strisciare più vicino, ricordo d’essere qui per il pettine di Afrodite e di dover tornare a tutti i costi dalle donne di Troia. Il destino di centinaia di migliaia di persone può dipendere da ciò che farò, perciò arretro in punta di piedi e mi allontano dagli dèi e dalle bizzarre macchine; percorro il lungo corridoio laterale e arrivo alla piccola suite di stanze dove qualche giorno fa ho conosciuto la dea dell’amore. È possibile che siano trascorsi solo pochi giorni? È successo di tutto, da allora, e non esagero.
Sento delle voci, voci di dèi, echeggiare da qualche parte nella grande sala, e scivolo nel pied-à-terre di Afrodite, col cuore in gola. Il posto è esattamente uguale a come lo ricordavo: senza finestre, illuminato appena dalle braci di alcuni tripodi, arredato solo con un divano e pochi altri mobili, compreso lo schermo dal tenue bagliore azzurro sulla scrivania di marmo. L’altra volta avevo pensato che lo schermo fosse simile a quello di un computer, e adesso vado a controllare. È proprio così, il lucente rettangolo azzurro non posa sul piano della scrivania, si libra a cinque centimetri dal marmo; non mostra il menu di Windows della Microsoft, ma un solo cerchio bianco che pare invitarmi a toccarlo per accendere lo schermo.
Lo lascio stare.
Ricordo d’avere visto accanto al divano, su un tavolino rotondo, alcuni piccoli oggetti personali di Afrodite; posso solo augurarmi che fra quelli ci sia un pettine. Non c’è. Solo una spilla d’argento, alcuni piccoli cilindri (rossetti per labbra divine?) e, a faccia in giù, uno specchio d’argento splendidamente lavorato, ma nessun pettine.
Maledizione. Non ho idea di dove si trovi la casa di Afrodite, tra le ville disseminate sull’ampia e verdeggiante sommità dell’Olimpo, e non posso certo chiedere indicazioni a un dio. Ho scommesso con Elena che le avrei portato il pettine di Afrodite e ho perduto. Comunque, l’importante era mostrare a quelle donne che posso andare sull’Olimpo e tornare, ma è essenziale che mi sbrighi. Non so quanto le donne troiane aspetteranno.
Prendo lo specchio, senza guardarlo, e mi concentro sulla stanza nel piano interrato del tempio di Atena. Aziono il medaglione.
Quando ricompaio, ci sono sette donne, non le cinque che avevo lasciato lì qualche minuto fa. Tutte arretrano di un passo nel vedermi comparire dal nulla, ma una di loro strilla come impazzita e si copre il viso. Ho appena il tempo di vederla in faccia e la riconosco: è Cassandra, la bellissima figlia di re Priamo.
«Hai portato il pettine, Hock-en-bear-eeee? La prova che puoi andare sull’Olimpo come fanno gli dèi?»
«Non ho avuto il tempo di cercarlo» rispondo. «Ma ho preso questo.» Porgo lo specchio alla più vicina, Laodice, figlia di Ecuba.
«Le incisioni sul manico d’argento e sul dorso dello specchio» dice Elena «somigliano a quelle che ricordo sul pettine della dea, ma…»
S’interrompe perché Laodice ansima e rischia di lasciar cadere lo specchio. La sacerdotessa, Teanò, lo prende, vi si rimira, sbianca in viso e lo passa ad Andromaca. La moglie di Ettore guarda e arrossisce. Cassandra lo toglie di mano ad Andromaca, fissa la propria immagine e strilla di nuovo.
Ecuba lancia un’occhiataccia a Cassandra e le strappa via lo specchio. Capisco subito che non corre buon sangue fra le due donne e ricordo il motivo: Cassandra, ricevuto da Apollo il potere della profezia, ha chiesto con insistenza a re Priamo di far uccidere il figlio di Ecuba, Paride, appena fosse nato. Fin dall’infanzia Cassandra ha previsto la tragedia che sarebbe derivata dalla cattura di Elena e la conseguente guerra. Ma, secondo la tradizione, il dono di Apollo era accompagnato da una maledizione: Cassandra avrebbe visto il futuro, ma non sarebbe stata creduta.
Ora Ecuba, a bocca aperta, fissa l’immagine nello specchio.
«Cosa c’è?» chiedo. Qualcosa non va, in quello specchio.
Elena lo prende dalle mani della madre di Ettore e me lo passa. «Vedi, Hock-en-bear-eeee?»
Читать дальше