«Ti esporremo il nostro piano» dice la vecchia regina Ecuba «ma prima devi dimostrarci che questi ultimi due giocattoli degli dèi funzionano.» Indica il bracciale morfico e il medaglione TQ.
Tenendole d’occhio, mi metto il bracciale. L’indicatore dice che rimangono meno di tre minuti di carica. Uso l’apparecchio per fare la scansione di Ecuba e poi mi morfizzo.
La vera Ecuba scompare, mentre prendo il suo spazio di probabilità quantica. «Mi credete, ora?» dico con la voce di Ecuba. Alzo il polso, il polso di Ecuba, e mostro il bracciale. Dalla veste estraggo lo storditore. Le quattro donne rimaste, compresa Elena, rimangono a bocca aperta e arretrano di un passo, sconvolte come se con una spada avessi fatto a pezzi la vecchia matrona. Più sconvolte, anzi: conoscono fin troppo bene la morte per spada.
Spengo il bracciale morfico ed Ecuba riappare nel punto dove era scomparsa. Batte le palpebre, ma so che non ha la sensazione del tempo trascorso. Le cinque donne borbottano fra loro. Controllo l’indicatore virtuale: restano due minuti e ventotto secondi di carica.
Mi metto al collo il medaglione TQ. Almeno quel congegno pare che non abbia limiti di carica. «Volete che esca di qui e torni per dimostrare che pure questo funziona?» chiedo.
Ecuba ha ripreso la padronanza di sé. «No» risponde. «Tutti i nostri piani, tuoi e nostri, dipendono dalla tua capacità di andare di nascosto sull’Olimpo e di tornare. Puoi portare là una di noi, adesso?»
Esito di nuovo. «Potrei» dico alla fine «ma l’Elmo di Ade rende invisibile solo me. Se portassi sull’Olimpo una di voi, la prescelta sarebbe visibile.»
«Allora devi portare qui un oggetto, la prova che sei stato sull’Olimpo» dice Ecuba.
Alzo le mani, palme in su. «Quale? Il vaso da notte di Zeus?»
Tutt’e cinque arretrano di nuovo, come se avessi bestemmiato. Mi dico che qui la bestemmia non è il divertimento disinvolto che era nel mio tempo, alla fine del ventesimo secolo… per ottime ragioni. Qui gli dèi sono reali e a insultarli si paga il fio. Lancio un’occhiata alle pareti e mi auguro che il piombo schermi davvero dall’Olimpo… non per la battuta sul vaso da notte, ma per le decisioni che pare prenderemo.
«Quando ero con Afrodite durante il giudizio degli dèi» dice piano Elena «ho notato che per spazzolarsi i lucenti capelli la dea usa un bellissimo pettine d’argento, fabbricato da qualche abile dio. Vai nelle sue stanze sull’Olimpo e porta qui quel pettine.»
Apro bocca per ricordare loro ciò che ho già detto, che Afrodite al momento galleggia in una vasca di guarigione, ma capisco che non fa differenza. Il pettine non sarà di sicuro nella vasca. «D’accordo» dico allora. Prendo il medaglione e mi metto l’Elmo di Ade. «Non andate in giro, mentre sono via.» Avevo già messo l’Elmo di Ade, prima di azionare il medaglione, perciò la mia voce sarà giunta loro dal vuoto, nel paio di secondi prima della traslazione quantica.
Non so con esattezza dove si trovino le stanze private di Afrodite. Probabilmente la dea ha una di quelle bianche case della grandezza di un tempio lungo il lago nel cratere, ma ricordo quando mi prese da parte, seducendomi quasi, e mi disse che avrei dovuto uccidere Atena; quella volta la Musa mi aveva condotto in una stanza appena fuori della Grande Sala degli Dèi. Se non erano i quartieri privati di Afrodite, pareva almeno una camera ammobiliata a sua disposizione nella grande sala, una sorta di pied-à-terre olimpico.
In un batter d’occhio mi telequanto nella Grande Sala e trattengo il respiro.
I molti mezzanini sono vuoti, la stanza è quasi tutta buia e la gigantesca piscina olografica mostra solo disturbi elettrostatici tridimensionali. Ma vi sono parecchi dèi, compreso Zeus, che pensavo fosse via, assiso sul monte Ida ad assistere al massacro sul campo di battaglia di Ilio. Il re degli dèi è sull’alto trono dorato. Nelle vicinanze ci sono vari altri dèi, fra cui Apollo. Sono tutti alti tre metri o più. Mi trovo a una quindicina di metri da loro e sono invisibile, grazie all’Elmo di Ade, ma quasi trattengo il fiato, per paura che sentano il mio respiro. La loro attenzione, però, è rivolta ad altro.
Di fronte al trono, più in basso, al centro del cerchio d’attenzione degli dèi, con un’aria incongrua, per non dire di peggio, ci sono quello che pare un enorme guscio metallico di granchio, butterato e crepato, delle dimensioni di una Ford Expedition, un paio di congegni dall’aspetto avveniristico e un piccolo, lucente robot umanoide. Il robot parla… nella mia lingua. Gli dèi ascoltano, ma non sembrano felici.
38
ATLANTIDE E ORBITA TERRESTRE
«Non capisco perché i post-umani chiamarono "Atlantide" il luogo dove siamo diretti» disse Harman.
Savi, alla guida del crawler, rispose: «Confesso di non avere mai capito granché delle azioni dei post».
Daeman, che masticava lentamente il suo pezzo dell’ultima tavoletta nutritiva, alzò gli occhi. «Che cosa c’è di strano nel nome "Atlantide"?»
«Nelle carte geografiche dell’Età Perduta» spiegò Harman «l’oceano Atlantico è la grande massa d’acqua a ovest di qui, al di là delle Mani d’Ercole. Noi siamo nel bacino che un tempo era il mar Mediterraneo. Non è l’Atlantico.»
«No?» disse Daeman.
«No.»
«E allora?»
Harman scrollò le spalle e rimase in silenzio, ma Savi disse: «È possibile che i post abbiano fatto una scelta eccentrica, quando hanno battezzato la loro base qui. Ma mi par di ricordare che uno scrittore dell’epoca precedente l’Età Perduta, un certo Plato o Platone, parlasse di una città o di un regno chiamato Atlantide in questa regione, quando ancora qui c’era l’acqua».
«Plato» rifletté Harman. «Ho incontrato riferimenti a lui nei libri che ho letto. E una volta ho visto anche un bizzarro disegno con questo nome. Un cane.»
Savi annuì. «Moltissimi significati dell’iconografia di quell’epoca sono perduti per sempre.»
«Cos’è un cane?» chiese Daeman. Bevve qualche sorso dalla bottiglia d’acqua di Savi. Un terzo della tavoletta nutritiva non era bastato a soddisfare la sua fame, ma nel crawler non c’era più cibo.
«Un piccolo mammifero molto comune come animale da compagnia» rispose Savi. «Non so perché i post hanno lasciato che si estinguesse. Forse il virus rubicon colpiva anche i cani.»
«Come i cavalli?» domandò Daeman. Fino a poco tempo prima aveva pensato che i grossi animali che incutevano paura, visti nel dramma del lino, fossero pura fantasia.
«Più piccoli e più pelosi dei cavalli» disse Savi. «Ma ugualmente estinti.»
«Perché i post hanno riportato in vita i dinosauri» chiese Daeman, con un vero brivido «e non quei fantastici cavalli del lino e i cani?»
«Come ho già detto, non è facile capire il comportamento dei post.»
Si erano svegliati poco dopo l’alba e avevano viaggiato in direzione nord-nordovest per tutto il giorno, rombando lungo la strada d’argilla rossa fra i campi ricchi di ogni sorta di colture che Daeman conosceva e di molte altre che lui non aveva mai visto. Due volte avevano incontrato un corso d’acqua poco profondo e una volta un ripido, profondo canale di permacemento, asciutto: il crawler, con le enormi ruote e i montanti bizzarramente articolati, non aveva avuto difficoltà ad attraversarli.
Nei campi c’erano servitori e Daeman si sentì rassicurato dal loro aspetto familiare, finché non si rese conto che quei servitori erano enormi, alti quattro metri o più, molto più larghi delle macchine cui era abituato; e più si inoltravano nel bacino, più colture e servitori avevano un aspetto alieno.
Il crawler procedeva rumorosamente fra alte pareti verdi di quella che Savi chiamò canna da zucchero, perché la strada non era abbastanza larga e le canne scricchiolavano sotto le ruote, quando Harman notò le creature umanoidi, di colore grigio verdastro, scivolare fra le canne, a destra e a sinistra. Si muovevano con tale fluidità e velocità da non disturbare le canne strettamente ammassate, come spettrali cadaveri che passassero fra gli alti steli.
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