Be’, rifletté, nessuno può fermarmi… a meno che il professor Anderson…
Con suo grande sollievo, il medico la giudicò un’eccellente idea e Poole fu assai contento di scoprire che ognuna delle Torri aveva la sua Uccelliera, su al livello di un decimo di g.
In pochi giorni gli presero le misure per le ali, nemmeno lontanamente simili alle eleganti versioni indossate dagli esecutori del Lago dei cigni. Al posto di piume, avevano delle membrane estensibili e, dopo aver afferrato le maniglie attaccate alle nervature di supporto, Poole si rese conto di assomigliare più a un pipistrello che a un uccello. Tuttavia, il suo «Scansati, Dracula!» lasciò del tutto indifferente il suo istruttore, che a quanto pareva non aveva alcuna familiarità con i vampiri.
Durante la prima lezione, venne legato a una leggera imbragatura, in modo che non si spostasse da tutte le parti mentre gli insegnavano i movimenti di base e, cosa più importante, mentre imparava il controllo e la stabilità. Come molte capacità acquisite, non era così facile come sembrava.
Si sentiva ridicolo in quella imbragatura di salvataggio — come ci si poteva far male a un decimo di gravità? — e si rallegrò perché gli bastarono solo poche lezioni; indubbiamente il suo addestramento di astronauta gli era servito. Come gli disse il suo Maestro d’Ala, era il miglior allievo che avesse mai avuto; ma forse lo diceva a tutti.
Dopo una decina di voli liberi in una sala di quaranta metri per lato, attraversata da diversi ostacoli facilmente superati, a Poole venne dato il via libera per il primo assolo e si sentì di nuovo il ragazzino diciannovenne in procinto di decollare con il vecchio Cessna all’aeroclub di Flagstaff.
Il poco emozionante nome di «Voliera» non si addiceva al luogo in cui sarebbe avvenuto il suo primo volo. Sebbene apparisse ancora più vasto dello spazio che racchiudeva foreste e giardini giù al livello di gravità lunare, era quasi della stessa grandezza, dal momento che occupava l’intero piano della Torre leggermente rastremata. Quello spazio circolare, alto mezzo chilometro e con un raggio di più di quattro chilometri, appariva davvero immenso, non essendoci caratteristiche su cui posare lo sguardo. Le pareti di un azzurro uniforme contribuivano all’impressione di spazio infinito.
Poole non aveva creduto a quello che il Maestro d’Ala gli aveva detto — «Può scegliere il paesaggio che preferisce» — e intendeva lanciargli quella che sicuramente sarebbe stata una sfida impossibile. Ma al primo volo, alla vertiginosa altitudine di cinquanta metri, non godette di distrazioni visive. Certo, una caduta da un’altitudine equivalente di cinque metri nella gravità terrestre dieci volte più pesante avrebbe potuto spezzare l’osso del collo di chiunque; tuttavia, persino un graffio era altamente improbabile in quel luogo, poiché il pavimento intero era coperto da una rete di cavi flessibili. La sala era un gigantesco trampolino; ci si poteva davvero divertire, pensò Poole, anche senza ali.
Con decisi colpi d’ala verso il basso, Poole si sollevò in aria. In un baleno gli parve di trovarsi a cento metri e di continuare a salire.
«Rallenti!» urlò il Maestro d’Ala. «Non riesco a seguirla.»
Poole si drizzò, poi tentò una lenta picchiata. Si sentì la testa e il corpo leggeri (meno di dieci chilogrammi!) e si chiese se non fosse aumentata la concentrazione d’ossigeno.
Era meraviglioso — del tutto diverso dalla gravità zero, dal momento che comportava più di una sfida fisica. La cosa che più gli poteva assomigliare era l’immersione subacquea: avrebbe voluto veder svolazzare uccellini, a imitazione del pesce corallo altrettanto colorato che lo aveva accompagnato così spesso nelle scogliere tropicali.
Il Maestro d’Ala lo guidò attraverso una serie di manovre: picchiate, gran volte, volo rovesciato, volo stazionario… Alla fine disse: «Non c’è altro che le possa insegnare. Ora si goda il panorama».
Per un breve attimo Poole perse quasi il controllo cosa che probabilmente ci si poteva aspettare che accadesse. Perché, mentre volava attraverso uno stretto passo, a soli pochi metri da sgradevoli rocce frastagliate senza il minimo segnale di avvertimento, si ritrovò circondato da montagne dalla cima coperta di neve.
Ovviamente non poteva essere reale; quelle montagne erano fatte della stessa sostanza delle nuvole e avrebbe potuto volare dritto attraverso di esse, se avesse voluto. Nondimeno, con una virata si allontanò dalla parete scoscesa (c’era un nido d’aquila su una sporgenza e dentro due uova che Poole pensò di poter toccare, se solo si fosse avvicinato) e si diresse verso spazi più aperti.
Le montagne svanirono; all’improvviso fu notte. E poi apparvero le stelle — non le poche migliaia dei miseri cicli della Terra, ma innumerevoli legioni. E non solo stelle, ma i vortici a spirale delle lontane galassie, i brulicanti sciami ravvicinati di soli degli ammassi globulari.
Non c’era alcuna possibilità che tutto ciò fosse reale, anche se fosse stato magicamente trasportato in qualche mondo in cui esistessero simili cieli. Perché quelle galassie si allontanavano proprio mentre le osservava, le stelle si spegnevano, esplodendo, dopo essere nate in vivai stellari di ardenti brume infuocate. Per ogni secondo, passava forse un milione di anni…
Quello spettacolo irresistibile sparì con la stessa rapidità con cui era apparso: si trovò di nuovo nel cielo vuoto, solo con il suo istruttore, nello scialbo cilindro azzurro della Voliera.
«Penso che sia abbastanza per il primo giorno», osservò il Maestro d’Ala, librandosi a qualche metro sopra Poole. «Quale paesaggio le piacerebbe la prossima volta che viene a volare?»
Poole non ebbe esitazioni. Con un sorriso, rispose alla domanda.
Non avrebbe mai creduto che fosse possibile, anche con la tecnologia di quell’epoca. Quanti terabytes… petabytes — esisteva una parola sufficientemente capace? — di informazioni dovevano essere stati accumulati nei secoli, e in quale tipo di congegno di memorizzazione? Meglio non pensarci e seguire il consiglio di Indra: «Dimentica di essere un ingegnere… e goditi lo spettacolo».
Stava certamente godendosela ora, benché nel suo piacere apparisse una sensazione spossante di nostalgia. Perché stava volando, o almeno così sembrava, a un’altitudine di circa due chilometri, sopra il paesaggio spettacolare e mai dimenticato della sua giovinezza. Certo, la prospettiva era falsata, dal momento che la Voliera era alta solo mezzo chilometro, ma l’illusione era perfetta.
Volò in cerchio sul Cratere del Meteorite, ricordando come si era arrampicato sui suoi fianchi durante i primi addestramenti da astronauta. Era incredibile che qualcuno potesse aver mai dubitato della sua origine e della correttezza del suo nome. Eppure già nel XX secolo eminenti geologi avevano sostenuto che era vulcanico: solo con l’avvento dell’era spaziale avevano dovuto accettare — con riluttanza — il fatto che tutti i pianeti fossero stati sottoposti a un continuo bombardamento.
Poole era assolutamente sicuro che quella confortevole velocità di crociera fosse più vicina ai venti che ai duecento chilometri all’ora, eppure gli aveva permesso di raggiungere Flagstaff in meno di quindici minuti. E là c’erano le cupole biancheggianti dell’Osservatorio Lowell, che aveva visitato tante volte da bambino, e il cui amichevole personale era stato indubbiamente responsabile della scelta della sua carriera. Talvolta si era chiesto quale professione avrebbe scelto, se non fosse nato in Arizona, proprio vicino al luogo in cui erano state create le più durevoli e credibili tra le leggende marziane. Forse era solo immaginazione, ma a Poole parve di vedere la bizzarra tomba di Lowell, vicino al grande telescopio che aveva alimentato i suoi sogni.
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