Arthur Clarke - Preludio allo spazio

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I lettori conoscono già Arthur C. Clarke, che ha inaugurato la serie dei romanzi di Urania con «Le sabbie di Marte». Con lo stesso stile avvincente, la stessa precisione di scienziato, Arthur Clarke ci narra ora come gli esseri umani si preparino al primo volo nello spazio: destinazione Luna. Siamo nel 1980 circa. «Per migliaia d’anni» dice l’Autore «la razza umana si è diffusa sulla Terra, finchè l’intero globo non fu esplorato e colonizzato. Ora è arrivato il momento di fare il passo seguente e attraversare lo spazio. L’umanità deve sempre avere nuovi orizzonti, per non sprofondare nella decadenza. La Terra era grande abbastanza per gli uomini dei giorni della diligenza e della nave a vela, ma ora che possiamo farne il giro in poche ore è diventata troppo piccola… E questa conquista è possibile, perchè gli uomini hanno l’eredità del sapere che conquistarono dalla loro comparsa sulla Terra ad oggi. Durante tutti questi secoli, in lontani mondi, sotto soli stranieri, il Tempo ha preparato per l’Uomo i luoghi dove sorgeranno città nuove e uomini nuovi… Molti dei giovani di questa generazione assisteranno certo alla partenza della prima astronave per la Luna.» Questo libro vi farà vivere il momento che segnerà una nuova era per l’umanità, quando il primo uomo supererà la stratosfera per lanciarsi alla conquista degli spazi e delle stelle!

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Subito dopo sarebbero ricaduti sulla Terra, i paracadute sarebbero sbocciati, dopo di che quasi tutti sarebbero stati ritrovati e usati di nuovo. Altri, non altrettanto fortunati, sarebbero finiti in mare, o forse avrebbero terminato i loro giorni come divinità tribali nelle giungle del Borneo.

Ci misero quasi venti minuti per compiere il tragitto di tre miglia lungo la strada affollata e più di una volta il professor Maxton fu costretto a fare qualche deviazione, penetrando in quella terra di nessuno che egli stesso aveva delimitato. La concentrazione di macchine e di spettatori aumentò quando raggiunsero il limite dei cinque chilometri e cessò bruscamente davanti a una barriera di pali verniciati di rosso.

Lì era stata costruita, con vecchie casse da imballaggio, una piccola pedana e quel piedistallo improvvisato era già occupato da Sir Robert Derwent e da alcuni membri del suo staff. Dirk notò con interesse che erano presenti anche Hassell e Clinton e si chiese quali pensieri passassero loro per la testa in quel momento.

Di tanto in tanto il Direttore Generale faceva qualche commento in un microfono, e attorno si vedevano solo un paio di trasmittenti portatili. Dirk, che si era vagamente aspettato di vedere intere batterie di strumenti, rimase un po’ deluso, ma poi capì che tutte le operazioni tecniche venivano effettuate altrove e che quello era semplicemente un posto d’osservazione.

«Venticinque minuti» si udì la voce dall’altoparlante. «Ora i generatori di lancio cominceranno a funzionare a pieno regime.

Tutte le stazioni di puntamento radar e gli osservatori della rete principale dovrebbero stare pronti.»

Dalla bassa pedana si poteva vedere quasi tutta la pista di lancio. Sulla destra c’era la folla ammassata e dietro di essa i bassi edifici dell’aeroporto. La «Prometheus» era ben visibile all’orizzonte e di tanto in tanto la luce solare le illuminava i fianchi, che splendevano come specchi.

«Quindici minuti.»

Leduc e i suoi compagni ora sedevano su quei curiosi sedili in attesa che si inclinassero alla prima accelerazione, eppure era strano pensare che non avrebbero avuto nulla da fare per quasi un’ora, quando si sarebbe verificata, alta sopra la Terra, la separazione dei veicoli. Tutta la responsabilità iniziale toccava al pilota della «Beta», il quale avrebbe avuto ben poco onore per la propria parte, anche se in ogni caso non avrebbe fatto altro che ripetere ciò che aveva già fatto una dozzina di altre volte.

«Dieci minuti. Tutti gli apparecchi aerei ricordino le istruzioni di sicurezza.»

I minuti stavano passando: un’era stava morendo e ne stava nascendo una nuova. E ad un tratto la voce impersonale che proveniva dagli altoparlanti rammentò a Dirk la mattina di trent’anni prima, allorché un altro gruppo di scienziati era stato ad aspettare in un altro deserto, mentre si apprestavano a liberare le energie che alimentano i soli.

«Cinque minuti. Erogare tutto il carico di elettricità e chiudere gli altri circuiti elettrici.»

Un gran silenzio era calato sulla folla: tutti gli occhi erano fissi su quelle ali luminose lungo la linea del cielo. Da qualche parte lì vicino un bambino, impaurito dal silenzio, cominciò a piangere.

«Un minuto. Razzi di segnalazione, via!»

Ci fu un grande sibilo proveniente dal deserto lontano sulla sinistra, e una linea frastagliata di segnali luminosi color cremisi prese a calare lentamente giù dal cielo. Alcuni elicotteri, che erano avanzati impercettibilmente, si affrettarono a fare marcia indietro.

«Comando automatico di decollo in funzione. Segnale di sincronizzazione… ADESSO!»

Si udì un «clik», mentre il circuito veniva commutato, e dagli altoparlanti provenne il vago fruscio di disturbi atmosferici molto lontani, poi su tutto il deserto rimbombò un suono che, proprio perché tanto familiare, non avrebbe potuto essere più inaspettato.

A Westminster, a mezzo mondo di distanza, il Big Ben si stava preparando a battere le ore.

Dirk guardò il professor Maxton e vide che anche lui era stato colto completamente di sorpresa. Invece, sulle labbra del Direttore Generale aleggiava un sorrisetto e Dirk ricordò che, per mezzo secolo, gli Inglesi in tutto il mondo avevano aspettato accanto alla radio quel suono proveniente dalla Terra, che forse non avrebbero mai più rivista. Ebbe un’improvvisa visione di altri esuli, nel vicino e nel lontano futuro, in attesa, su pianeti stranieri, che quelle stesse campane suonassero attraverso le profondità dello spazio.

Un silenzio tonante parve riempire il deserto quando i rintocchi dell’ultimo quarto si spensero, riecheggiando in lontananza da un altoparlante a quello successivo. Poi, il primo batter dell’ora rimbombò sul deserto e per tutto il mondo in attesa.

L’altoparlante tacque di colpo.

Eppure non era cambiato nulla: la «Prometheus» era ancora ferma sull’orizzonte come una grande farfalla metallica. Poi Dirk vide che lo spazio tra le ali e il profilo dell’orizzonte era un po’ più piccolo di prima, e un momento dopo ebbe la certezza che il veicolo spaziale stava ingrandendosi mentre si muoveva verso di lui. Più in fretta, sempre più in fretta, in un silenzio assoluto e magico, la «Prometheus» arrivò sfrecciando lungo la pista. Gli saettò davanti per un unico momento e per l’ultima volta egli poté vedere l’«Alpha» levigata, appuntita e luccicante sul suo dorso. Quando la nave si avventò verso la sinistra in direzione del deserto vuoto, Dirk riuscì a sentire solo il sibilo dell’aria che veniva lacerata al suo passaggio.

Ma anche questo fu un rumore lievissimo. E la catapulta elettrica non ne fece alcuno. Poi la «Prometheus» andò rimpicciolendosi silenziosamente in distanza.

Qualche secondo dopo, quel silenzio fu frantumato da un rombo simile a quello di mille cascate che si riversassero da scogliere alte un miglio. Il cielo parve scuotersi e tremare attorno a loro: la «Prometheus», ora, era scomparsa alla vista dietro una nuvola di polvere turbinante. Al centro di quella nuvola qualcosa bruciava con uno splendore insopportabile, che l’occhio non avrebbe tollerato neppure per un momento senza la presenza di quella velatura.

La nube polverosa si diradò e il tuono dei getti fu attutito dalla distanza. Poi Dirk riuscì a vedere che il frammento di sole che aveva guardato con gli occhi semichiusi non seguiva più la superficie della Terra, ma si stava sollevando regolarmente e vigorosamente sull’orizzonte. La «Prometheus» si era liberata dalla sua «nicchia» di lancio e stava raggiungendo il circuito ampio quanto il mondo che l’avrebbe condotta nello spazio.

La luminosità violenta nel suo biancore si indebolì, fino a scomparire contro il cielo vuoto. Per un po’ il brontolio dei getti che si allontanavano si protrasse nei cieli, finché a sua volta si perse, soffocato dal rumore degli aerei che volavano in cerchio.

Dirk quasi non percepì l’urlo della folla, quando la vita tornò ad animare il deserto alle sue spalle. Di nuovo, alla sua mente era tornata l’immagine che non aveva mai completamente dimenticato: quell’immagine dell’isola solitaria persa in un mare senza confini e mai solcato da nessuno.

Senza confini era, infinito poteva essere — ma non più «mai solcato da nessuno». Al di là della laguna, oltre il riparo amico della barriera corallina, la prima fragile nave stava veleggiando verso gli sconosciuti pericoli e le sconosciute meraviglie del mare aperto.

EPILOGO.

Dirk Alexson, un tempo professore di storia all’Università di Chicago, aprì il rigonfio pacchetto che stava sulla scrivania con dita leggermente tremanti. Per qualche momento lottò con l’elaborata confezione; poi il libro fu davanti a lui, lucido e perfetto come se avesse lasciato la tipografia tre giorni prima.

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