Arthur Clarke - Preludio allo spazio

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I lettori conoscono già Arthur C. Clarke, che ha inaugurato la serie dei romanzi di Urania con «Le sabbie di Marte». Con lo stesso stile avvincente, la stessa precisione di scienziato, Arthur Clarke ci narra ora come gli esseri umani si preparino al primo volo nello spazio: destinazione Luna. Siamo nel 1980 circa. «Per migliaia d’anni» dice l’Autore «la razza umana si è diffusa sulla Terra, finchè l’intero globo non fu esplorato e colonizzato. Ora è arrivato il momento di fare il passo seguente e attraversare lo spazio. L’umanità deve sempre avere nuovi orizzonti, per non sprofondare nella decadenza. La Terra era grande abbastanza per gli uomini dei giorni della diligenza e della nave a vela, ma ora che possiamo farne il giro in poche ore è diventata troppo piccola… E questa conquista è possibile, perchè gli uomini hanno l’eredità del sapere che conquistarono dalla loro comparsa sulla Terra ad oggi. Durante tutti questi secoli, in lontani mondi, sotto soli stranieri, il Tempo ha preparato per l’Uomo i luoghi dove sorgeranno città nuove e uomini nuovi… Molti dei giovani di questa generazione assisteranno certo alla partenza della prima astronave per la Luna.» Questo libro vi farà vivere il momento che segnerà una nuova era per l’umanità, quando il primo uomo supererà la stratosfera per lanciarsi alla conquista degli spazi e delle stelle!

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«Il pulsare della guerra, e l’emozione del meraviglioso,

I cieli che mormorano, i suoni che splendono,

Le stelle che cantano e gli amori che tuonano,

La musica che brucia nel cuore come il vino…»

Avrebbe potuto conservare con efficienza e successo quel posto per il resto della sua vita, ma lo «Zeitgeist» dell’astronautica era stato troppo forte. La mente gli aveva detto che l’attraversamento dello spazio era imminente, ma quanto fosse imminente, lui stesso inizialmente non lo aveva capito. Quando questa consapevolezza finalmente era nata, lui aveva infine riconosciuto lo scopo della sua vita, e i lunghi anni di fatica avevano cominciato a dare frutti.

«Ah! non avevo forse preso in mano la mia vita e dato

Tutto ciò che la vita dà e che gli anni si portan via,

Il vino e il miele, il balsamo e il lievito,

I sogni accarezzati e le speranze annientate?»

Fece girare le pagine ingiallite a dozzine per volta fino a che individuò le strette colonne di stampa che aveva cercato. Lì quanto meno, la magia persisteva: lì nulla era mutato e le parole ancora gli pulsavano nel cervello al vecchio ritmo insistente. C’era stato un tempo in cui i versi, in una catena che li rendeva senza fine dal primo all’ultimo, avevano serpeggiato nella sua mente per ore ed ore, finché il significato delle loro parole si era aperto:

«E allora né stella né sole si sveglieranno,
Nessun cambiamento di luce:
Nessun rumore d’acque smosse,
Né alcun suono o immagine:
Nessuna foglia invernale né primaverile,
Nessun giorno o cose diurni;
Solo l’eterno sonno
In una notte eterna».

La notte eterna sarebbe arrivata, e troppo presto perché all’Uomo piacesse. Ma, quanto meno, prima che si consumassero e morissero, egli avrebbe conosciuto le stelle: prima che sbiadisse come un sogno, l’Universo avrebbe ceduto i propri segreti alla sua mente. O, se non alla sua, alle menti che sarebbero venute dopo e che avrebbero portato a termine ciò che lui aveva cominciato.

Sir Robert chiuse il volumetto e lo ripose nello scaffale. Il suo viaggio nel passato era finito nel futuro e adesso era giunto il momento di tornare al presente.

Accanto al letto il telefono cominciò a reclamare la sua attenzione con squilli rabbiosi e pressanti.

29

Nessuno aveva mai appreso molto riguardo a Jefferson Wilkes, semplicemente perché c’era ben poco da conoscere di lui. Aveva fatto il contabile in un’industria di Pittsburgh per quasi trent’anni, durante i quali era stato promosso una sola volta.

Faceva il proprio lavoro con una laboriosa puntigliosità ch’era la disperazione dei suoi datori di lavoro. Come milioni di suoi contemporanei, egli praticamente non capiva quasi nulla della civiltà nella quale si ritrovava. Venticinque anni prima si era sposato, e nessuno si era stupito quando si era scoperto che la moglie dopo pochi mesi lo aveva lasciato.

Neppure i suoi amici — sebbene non vi fosse alcuna prova che ne avesse mai avuti — avrebbero mai affermato che Jefferson Wilkes fosse un profondo pensatore. Eppure c’era una cosa alla quale, a modo suo, aveva dedicato un’attenzione molto seria.

Il mondo non avrebbe mai saputo che cosa aveva fatto rivolgere la piccola, patetica mente di Jefferson Wilkes verso le stelle.

Era molto più che probabile che il motivo fosse stato il desiderio di sfuggire alla squallida realtà della sua vita quotidiana. Quale che ne fosse stata la ragione, egli s’era studiato gli scritti di coloro che predicevano la conquista dello spazio. E aveva deciso che, a ogni costo, essa doveva essere impedita.

Da quanto si poté capire, Jefferson Wilkes era convinto che il tentativo di penetrare lo spazio avrebbe fatto ricadere sull’umanità qualche grandiosa, metafisica condanna. Era ovvio che considerava la Luna l’Inferno o, quanto meno, il Purgatorio.

Qualunque arrivo prematuro del genere umano in quelle regioni infernali avrebbe avuto incalcolabili, e, a dir poco, sfortunate conseguenze.

Per trovare sostegno alle proprie idee, Jefferson Wilkes fece ciò che migliaia di persone prima di lui avevano fatto. Cercò di convincere gli altri delle proprie convinzioni attraverso la fondazione di un’organizzazione alla quale diede l’altisonante nome di «I razzi non devono levarsi!». Dal momento che qualunque dottrina, per quanto assurda, riesce a conquistare adepti, Wilkes raccolse alcune decine di sostenitori tra le oscure sette religiose che fioriscono negli Stati Uniti occidentali.

Tuttavia, molto presto, il microscopico movimento fu scosso da scismi e controscismi. Alla fine il Fondatore si ritrovò con i nervi a pezzi e le finanze disastrate. Se qualcuno desidera fare una distinzione tanto sottile, si potrebbe dire che impazzì.

Quando la «Prometheus» fu costruita, Wilkes decise che il suo lancio avrebbe potuto essere impedito solo con i suoi sforzi personali. Poche settimane prima dell’evento liquidò le sue poche proprietà e ritirò il denaro che gli restava in banca.

Scoprì che per recarsi in Australia gli mancavano centocinquantacinque dollari.

La scomparsa di Jefferson Wilkes sorprese e addolorò i suoi datori di lavoro, ma dopo una frettolosa ispezione dei suoi libri contabili, costoro decisero di non fare alcun tentativo per rintracciarlo. Non si ricorre alla polizia quando, dopo trent’anni di fedele servizio, un dipendente ruba centocinquantacinque dollari da una cassaforte che ne contiene alcune migliaia.

Wilkes non ebbe alcuna difficoltà a raggiungere Luna City e, quando fu arrivato, nessuno lo notò. Lo staff dell’Interplanetary probabilmente lo ritenne uno delle centinaia di giornalisti che si aggiravano per la base, mentre i reporters lo presero per un membro dello staff. Lui comunque era il tipo d’uomo che avrebbe potuto varcare la soglia di Buckingham Palace senza attrarre la benché minima attenzione e le guardie avrebbero giurato che non era entrato nessuno.

Quali pensieri avessero attraversato lo stretto cancello della mente di Jefferson Wilkes allorché vide la «Prometheus» distesa nella sua «nicchia» di lancio, nessuno lo saprà mai. Forse fino a quel momento non si era reso conto dell’immensità del compito che si era dato. Avrebbe potuto provocare un grave danno con una bomba, ma sebbene le bombe possano giungere a Pittsburgh come in tutte le grandi città, i modi in cui procurarsele non sono a conoscenza di tutti — in particolare non di rispettabili contabili.

Dalle barriere di corda, lo scopo delle quali non avrebbe potuto capire appieno, aveva osservato il carico delle provviste e gli ingegneri intenti ai test finali. Aveva notato che, di notte, la grande nave spaziale veniva lasciata incustodita sotto i riflettori, e che anche questi venivano spenti nelle primissime ore del mattino.

Non sarebbe stato molto meglio, pensò, lasciare che la nave abbandonasse la Terra e assicurarsi che non tornasse mai più?

Una nave spaziale danneggiata avrebbe potuto essere riparata, ma una nave spaziale che fosse inspiegabilmente svanita sarebbe stato un deterrente molto più efficace, un avvertimento di cui tener conto.

La mente di Jefferson Wilkes era vergine di scienza, tuttavia egli sapeva che una nave spaziale deve portarsi appresso il rifornimento d’aria e sapeva che l’aria veniva tenuta in cilindri. Che cosa c’era di più semplice che svuotarli, in modo che la cosa non fosse scoperta se non troppo tardi? Non voleva far del male all’equipaggio ed era sinceramente dispiaciuto all’idea che facessero una tal fine, ma non aveva alternative.

Sarebbe tedioso enumerare i difetti del brillante piano di Jefferson Wilkes. La riserva d’aria della «Prometheus» non veniva neppure trasportata in cilindri e, se lui fosse riuscito a svuotare i serbatoi di ossigeno liquido, probabilmente avrebbe avuto sorprese spiacevolmente fredde. Comunque, il controllo degli strumenti di routine avrebbe rivelato all’equipaggio che cosa era successo esattamente, prima del lancio, e, anche senza una riserva di ossigeno, l’impianto di condizionamento d’aria sarebbe riuscito a mantenere un’atmosfera respirabile per parecchie ore. Ci sarebbe quindi stato tempo di immettersi nell’orbita di rientro di emergenza, che avrebbe potuto essere subito elaborata col calcolatore, in previsione di quei tipi di calamità.

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