«L’esplorazione di Marte sarà per certi versi molto simile a quella della Luna. Può darsi che non ci servano tute spaziali per starci, ma sicuramente avremo bisogno di ossigeno. La base marziana si troverà a dover affrontare gli stessi problemi che presenta la Luna. Anche se in forma molto meno acuta. Ma avrà uno svantaggio: sarà molto lontana da casa e dovrà basarsi molto di più sulle proprie risorse. La presenza quasi sicura di un qualche genere di vita, inoltre avrà sull’insediamento effetti per ora non prevedibili. Se vi è un’intelligenza su Marte — cosa di cui dubito forse dovremo cambiare totalmente i nostri piani: potrebbe non essere possibile fermarvisi per niente. Le possibilità, per quanto riguarda Marte, sono quasi infinite, ecco perché è un luogo tanto interessante.
«Al di là di Marte la scala del Sistema Solare si dilata e non sarà possibile fare molte esplorazioni finché non avremo veicoli più veloci. Anche la nostra «Prometheus» potrebbe raggiungere i pianeti esterni, ma non potrebbe rientrare, e il viaggio richiederebbe molti anni. Tuttavia penso che entro la fine del secolo potremmo prepararci ad andare su Giove e forse su Saturno. Molto probabilmente tali spedizioni partirebbero da Marte. «Naturalmente non possiamo sperare di atterrare su questi due pianeti: se hanno superficie solida, il che è dubbio, sono a migliaia di miglia sotto un’atmosfera in cui non osiamo entrare.
Se dovesse esservi una qualsiasi forma di vita all’interno di quegli inferni subartici, non vedo come potremo mai contattarla — o come essa potrebbe mai sapere qualcosa di noi.
«L’interesse principale per Saturno e per Giove sta nei loro sistemi di lune. Saturno ne ha almeno dodici, Giove almeno quindici. Inoltre, molti di essi sono mondi abbastanza grandi, più grandi della nostra Luna. Titano, il satellite più grande di Saturno, è grande quasi metà della Terra, e si sa che possiede un’atmosfera, anche se non respirabile. Sono tutte freddissime, ma questa non è un’obiezione seria, ora che possiamo ottenere quantità illimitate di calore dalle reazioni atomiche.
«I tre pianeti più esterni non ci riguarderanno per un bel po’ di tempo — una cinquantina di anni o ancora di più. In ogni caso, per il momento sappiamo ben poco di loro.
«Questo è tutto ciò che per ora dirò. Spero di aver chiarito che il viaggio che faremo la settimana prossima — anche se appare straordinario secondo i nostri standard attuali —, è in realtà solo il primo passo. E’ eccitante e interessante, ma dobbiamo tenerlo nella giusta prospettiva. La Luna è un piccolo mondo e, per certi versi, non è molto promettente; ma alla fine ci condurrà fino ad altri otto pianeti, alcuni più grandi della Terra, e a più di trenta lune di varie dimensioni. L’area globale che apriremo all’esplorazione nei pochi decenni prossimi, è almeno dieci volte tanto quella della superficie terrestre. E questo dovrebbe dare spazio a tutti.
«Grazie.»
Taine smise bruscamente di parlare, senza abbellimenti retorici, come un annunciatore radiofonico improvvisamente consapevole di aver superato i limiti di tempo. Calò un silenzio totale per circa mezzo minuto, mentre il pubblico lentamente ritornava sulla Terra. Poi si levarono alcuni educati applausi che lentamente aumentarono man mano che la gente tornava alla realtà.
I giornalisti, battendo i piedi e cercando di ripristinare la circolazione, cominciarono a uscire. Dirk si chiese quanti avessero realizzato, per la prima volta, che la Luna non era un obiettivo, ma un inizio — il primo passo lungo una strada infinita, una strada, ora ne era convinto, che tutte le razze avrebbero finito per percorrere se non avessero voluto isterilirsi e morire sui loro piccoli mondi solitari.
Ora per la prima volta era possibile vedere la «Prometheus»
tutta intera. L’«Alpha» era stata issata in posizione sulle ampie spalle della «Beta» e le conferiva un aspetto piuttosto brutto e gobbo. Persino Dirk, per il quale tutte le macchine volanti erano quasi uguali, non avrebbe potuto confondere la grande nave spaziale con una qualunque cosa che avesse mai solcato i cieli.
Seguì Collins per la scala della incastellatura mobile per dare un’ultima occhiata all’interno. Era sera e c’era poca gente in giro. Da dietro il cordone di recinzione alcuni fotografi cercavano di fare foto del veicolo spaziale con il sole che gli tramontava alle spalle. La «Prometheus» sarebbe stata uno spettacolo impressionante, stagliata contro lo splendore calante del cielo occidentale.
La cabina dell’«Alpha» era luminosa e linda come una sala operatoria, pur tuttavia c’era qualche tocco personale: oggetti ovviamente appartenenti all’equipaggio erano stati riposti qua e là in nicchie, dove erano stati fissati da bande elastiche.
Alcune fotografie erano state appiccicate alle pareti, e sulla scrivania del pilota, in una cornice di plastica, c’era un ritratto della (così presunse Dirk) moglie di Leduc. Carte e tabelle matematiche erano state fissate in punti strategici per poter essere consultate rapidamente. Per la prima volta dopo giorni Dirk ricordò all’improvviso la visita, in Inghilterra, in un tranquillo quartiere periferico, alla stanza di addestramento simulato, dove si era trovato davanti allo stesso dispiegamento di strumentazioni. Sembrava fosse passata una vita, e mezzo mondo di distanza.
Collins si avvicinò a un armadietto alto e spalancò l’anta.
«Non ne avete mai viste di queste finora, vero?» chiese.
Le tre vuote tute spaziali appese ai ganci sembravano creature dei fondali marini, trascinate dall’oscurità alla luce del giorno. Il tessuto spesso e flessibile cedette subito sotto il tocco di Dirk, che avvertì la presenza di anelli metallici di rinforzo. I caschi trasparenti somiglianti a grandi bocce per pesci erano fissati in nicchie ai lati dell’armadietto.
«Proprio come tute subacquee, vero?» disse Collins. «Di fatto, l’«Alpha» assomiglia a un sottomarino più che a qualunque altra cosa, sebbene i nostri problemi di progettazioni siano molto inferiori, dato che non dobbiamo affrontare le stesse pressioni.»
«Mi piacerebbe sedermi al posto del pilota» disse all’improvviso Dirk. «E’ possibile?»
«Sì, purché non tocchiate nulla.»
Collins restò a guardarlo mentre prendeva posto. Conosceva quell’impulso, dato che più di una volta egli stesso lo aveva provato.
Quando l’apparecchio fosse stato in movimento oppure in verticale sulla Luna, il sedile si sarebbe spostato in avanti ad angolo retto, rispetto alla posizione attuale. Quello che adesso era il pavimento sotto i piedi di Dirk sarebbe diventato la parete antistante, e l’oculare del periscopio che ora i suoi stivali dovevano evitare sarebbe stato in posizione per essere usato. A causa di questa rotazione, così poco familiare alla mente umana, era difficile provare le sensazioni che avrebbe provato il pilota quando fosse stato seduto lì.
Dirk si alzò e si voltò per andar via. Seguì Collins in silenzio fino alla porta a tenuta d’aria, ma, per un attimo, si fermò sulla soglia della pesante porta ovale per dare un’ultima occhiata alla cabina silenziosa.
«Addio, piccola nave!» pensò. «Addio e buona fortuna.»
Quando uscirono sull’incastellatura, era buio e i riflettori rovesciavano fasci di luce sul cemento sottostante. Soffiava un vento freddo e la notte era punteggiata di stelle, delle quali lui non avrebbe mai conosciuto i nomi. Ad un tratto Collins, che gli stava a fianco nell’oscurità, lo afferrò per un braccio e gli indicò silenziosamente l’orizzonte.
Quasi invisibile nella vaga luminescenza del tramonto, la falce della Luna vecchia di due giorni stava scivolando giù, a Occidente. Fra le sue braccia c’era il disco appena luminoso che stava ancora aspettando l’avvento del giorno. Dirk cercò di immaginare le grandi montagne e le corrugate pianure in attesa che il Sole si levasse su di loro, e tuttavia già incendiate dalla luce fredda della Terra quasi piena.
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