Arthur Clarke - Preludio allo spazio

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I lettori conoscono già Arthur C. Clarke, che ha inaugurato la serie dei romanzi di Urania con «Le sabbie di Marte». Con lo stesso stile avvincente, la stessa precisione di scienziato, Arthur Clarke ci narra ora come gli esseri umani si preparino al primo volo nello spazio: destinazione Luna. Siamo nel 1980 circa. «Per migliaia d’anni» dice l’Autore «la razza umana si è diffusa sulla Terra, finchè l’intero globo non fu esplorato e colonizzato. Ora è arrivato il momento di fare il passo seguente e attraversare lo spazio. L’umanità deve sempre avere nuovi orizzonti, per non sprofondare nella decadenza. La Terra era grande abbastanza per gli uomini dei giorni della diligenza e della nave a vela, ma ora che possiamo farne il giro in poche ore è diventata troppo piccola… E questa conquista è possibile, perchè gli uomini hanno l’eredità del sapere che conquistarono dalla loro comparsa sulla Terra ad oggi. Durante tutti questi secoli, in lontani mondi, sotto soli stranieri, il Tempo ha preparato per l’Uomo i luoghi dove sorgeranno città nuove e uomini nuovi… Molti dei giovani di questa generazione assisteranno certo alla partenza della prima astronave per la Luna.» Questo libro vi farà vivere il momento che segnerà una nuova era per l’umanità, quando il primo uomo supererà la stratosfera per lanciarsi alla conquista degli spazi e delle stelle!

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«Mi chiedo come trascorrono la loro ultima notte sulla Terra Leduc, Richards e Taine. Naturalmente avranno sistemato ogni cosa e non resterà loro più nulla da fare. Stanno rilassandosi, ascoltando musica, leggendo… o semplicemente dormendo?

James Richards non faceva nessuna delle cose suddette. Sedeva nel salotto con i suoi amici, bevendo molto lentamente, senza eccedere, mentre raccontava loro storielle divertenti sui test cui era stato sottoposto da psicologi folli che cercavano di decidere se lui era normale, e in tal caso, che cosa si sarebbe potuto fare al riguardo. Gli psicologi che lui stava prendendo in giro costituivano la parte più numerosa — e che lo apprezzava di più — del suo pubblico. Lo lasciarono parlare fino a mezzanotte, poi lo portarono a letto. Si dovettero mettere in sei per riuscirvi.

Pierre Leduc aveva trascorso la serata sulla nave, a seguire alcuni test sull’evaporazione del combustibile che stavano facendo a bordo dell’«Alpha». La sua presenza non era necessaria, ma, anche se di tanto in tanto qualcuno aveva lasciato cadere qualche delicata allusione, nessuno era riuscito a liberarsi di lui. Poco prima di mezzanotte sopraggiunse il Direttore Generale che fece una bonaria scenata e lo rimandò con la propria macchina nei suoi alloggi, dopo avergli severamente ordinato di andare a dormire. Dopo di che Leduc passò le successive due ore a letto a leggere «La Comédie Humaine».

Soltanto Louis Taine — il preciso, imperturbabile Taine — aveva usato la sua ultima notte sulla Terra in modo prevedibile.

Era rimasto seduto per ore alla scrivania a buttar giù brutte copie e a distruggerle l’una dopo l’altra. A tarda sera aveva finito; nella sua precisa calligrafia aveva trascritto la lettera che tanto impegno e tanta riflessione gli era costata, poi aveva sigillato la busta e vi aveva attaccato un piccolo biglietto formale:

CARO PROFESSOR MAXTON,

Nel caso non dovessi tornare vi sarò obbligato se vorrete provvedere affinché questa lettera venga consegnata. Vostro

L. Taine.

Mise lettera e biglietto in una busta grande che indirizzò a Maxton, poi prese la grossa cartelletta contenente le orbite di volo alternative, e cominciò a fare annotazioni sui margini dei fogli. Era di nuovo se stesso.

32

Il messaggio che Sir Robert aspettava arrivò poco dopo l’alba con uno degli aerei postali velocissimi che, più tardi nel corso della giornata, avrebbero riportato in Europa le pellicole del lancio. Era un’autorizzazione ufficiale a procedere, firmata solo con un paio di iniziali che tutto il mondo avrebbe riconosciuto anche senza l’aiuto delle parole: «10 Downing Street», che costituivano l’intestazione del foglio. E tuttavia non era un documento del tutto formale, perché sotto le iniziali la stessa mano aveva vergato le parole: «Buona fortuna!».

Allorché il professor Maxton arrivò qualche minuto dopo, Sir Robert gli porse il foglio senza dire una parola. L’americano lo lesse lentamente e trasse un sospiro di sollievo.

«Bene, Bob» disse «noi abbiamo fatto la nostra parte. Ora tocca ai politici, ma noi continueremo a spingerli da dietro.»

«Non è stato difficile come temevo: gli statisti hanno imparato a darci retta dopo Hiroshima.»

«E quando sarà presentato il progetto all’Assemblea Generale?»

«Tra un mese circa, quando i governi britannico e americano proporranno formalmente che «Tutti i pianeti o i corpi celesti non rivendicati o non occupati da forme non umane di vita, eccetera eccetera, vengano considerati aree internazionali liberamente accessibili a tutti i popoli, e nessuno Stato sovrano potrà rivendicare tali corpi astronomici per occuparli e svilupparli…» e così via.»

«E che mi dici riguardo alla proposta di una Commissione Interplanetaria?»

«Di questo si discuterà in seguito. Per il momento la cosa importante è ottenere l’accordo sui primi stadi. Ora che i nostri governi hanno formalmente adottato il progetto — ne daranno la comunicazione per radio questo pomeriggio —, possiamo cominciare a fare le nostre pressioni politiche. Tu sei il migliore in questo genere di cose: potresti scrivere un discorsetto sulla linea del nostro primo Manifesto, un discorsetto che Leduc possa trasmettere dalla Luna. Porre l’accento sul punto di vista astronomico e su quanto sarebbe stupido anche solo tentare di portare nello spazio il nazionalismo. Pensi di riuscire a prepararlo prima del decollo?

Non che importi anche se non ce la fai, è solo che potrebbe trapelare se dovessimo trasmetterlo via radio.»

«D’accordo. Farò controllare la brutta copia dagli esperti politici, poi lascerò a te l’aggiunta degli aggettivi, come al solito. Ma non credo che questa volta ci sarà bisogno di molti abbellimenti. Questo primo messaggio proveniente dalla Luna avrà di per sé sufficiente impatto psicologico.»

Mai prima d’allora su qualche parte del deserto australiano si era vista tale densità di popolazione. Per tutta la notte erano continuati ad arrivare treni speciali da Adelaide e da Perth, e migliaia di automobili e di aerei privati erano parcheggiati su entrambi i lati della pista di lancio. Jeeps continuavano a perlustrare in lungo e in largo le zone di sicurezza, allontanando i visitatori troppo curiosi. Assolutamente a nessuno era permesso di avvicinarsi a più di cinque chilometri, e pure a questa distanza dalla nave si interrompeva il movimento degli aerei che volavano in cerchio.

La «Prometheus» splendeva nella luce del sole basso, diffondendo una lunga ombra fantastica sul deserto. Fino a quel momento era parsa solo una cosa di metallo, ma ora finalmente era viva e in attesa di appagare i sogni dei suoi creatori. Quando Dirk e i suoi compagni arrivarono, l’equipaggio era già a bordo. C’era stata una piccola cerimonia a beneficio dei cinegiornali e delle televisioni, ma nessun discorso formale. Questi sarebbero potuti venire, se necessario, di lì a tre settimane.

Le voci dagli altoparlanti lungo la pista stavano dicendo in tono pacato e discorsivo: «Completato controllo strumenti: i generatori di lancio funzionano a mezzo regime: manca un’ora».

Le parole echeggiarono sul deserto ritrasmesse da altri altoparlanti, attutite dalla distanza: «Manca un’ora — manca un’ora — un’ora — un’ora…» finché si spensero verso nordovest.

«Credo che sarà meglio muoversi» disse il professor Maxton.

«Penso che ci vorrà un po’ di tempo per fendere questa folla.

Date una bella occhiata all’«Alpha», è l’ultima occasione che avete.»

L’annunciatore stava parlando di nuovo, ma questa volta le sue parole non erano dirette a loro. Dirk si rese conto che stavano ascoltando una parte di una sequenza di istruzioni dirette a tutto il mondo.

«Le stazioni-sonda dovrebbero essere pronte a lanciare i razzi.

Sumatra, India, Iran — fateci avere le vostre letture entro i prossimi quindici minuti.»

A molte miglia di distanza nel deserto qualcosa sfrecciò sibilando nel cielo, lasciandosi dietro una scia di vapore di un bianco puro che avrebbe potuto essere stata tracciata col righello. Mentre Dirk osservava, la lunga colonna lattea cominciò a torcersi e a ridursi man mano che i venti e la stratosfera la disperdevano.

«Razzi meteorologici» disse Collins rispondendo alla sua domanda silenziosa. «Ne abbiamo una catena lungo la rotta di volo, in modo da conoscere le pressioni e le temperature per tutto il tragitto, fino alla sommità dell’atmosfera. Il pilota della «Beta» sarà avvertito prima del decollo, nel caso vi fosse qualcosa di insolito davanti a lui. Questa è una preoccupazione che Leduc non avrà. Non c’è clima nello spazio!»

I sottili razzi con i loro cinquanta chili di strumentazione stavano salendo nella stratosfera diretti nello spazio, sopra l’Asia. Avevano esaurito il combustibile nei primi pochi secondi di volo, ma la loro velocità era sufficientemente grande da portarli a un centinaio di chilometri sopra la Terra. Mentre salivano alcuni nella luce solare, altri ancora nell’oscurità —, rimandavano a Terra un continuo flusso di impulsi radio, che sarebbero stati intercettati e tradotti e passati all’Australia.

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