Philip Farmer - Il fabbricante di universi

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Il romanzo racconta la storia di Robert Wolff, insegnante universitario in pensione, che seguendo il rumore di uno squillo di tromba apre la porta del ripostiglio e si ritrova in un mondo fantastico, chiamato Mondo dei Livelli.
Il Mondo dei Livelli è una specie di gigantesca torre, i cui piani sono abitati da diverse civiltà. Nei piani inferiori vivono le più primitive mentre salendo diventano via via più progredite. In cima alla torre vive una specie di semidei, esseri umani in grado di fabbricare interi universi.
Wolff, con l’aiuto di un indigeno di nome Kickaha scopre di essere il creatore di quel mondo, e si trova a dover intraprendere una lotta per scacciare gli usurpatori e riprendere il proprio rango.

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«Il corno deve trovarsi nel punto immediatamente sottostante la nostra finestra» disse Wolff. Solo che…

«I draghi d’acqua» disse Kickaha. «Avranno portato i corpi di Smeel e Diskibibol nelle loro tane, dovunque siano. Ma potrebbero essercene degli altri nei paraggi. Io andrei, ma la mia ferita li attirerebbe subito.»

«Stavo semplicemente parlando da solo» disse Wolff. Cominciò a togliersi i vestiti. «Quanto è profondo il fossato?»

«Lo scoprirai» rispose Kickaha.

Wolff vide brillare qualcosa di rosso al riflesso della luce delle torce del ponte levatoio. L’occhio di un animale, pensò. Un attimo dopo, lui e gli altri furono presi all’interno di qualcosa di puzzolente e cedevole. La sostanza, qualsiasi cosa fosse, gli coprì gli occhi.

Lottò disperatamente, ma silenziosamente. Sebbene non sapesse chi fossero i suoi assalitori, non intendeva svegliare la gente del castello. Qualunque fosse stato l’esito della lotta, non era affare per quelli del castello: Wolff lo sapeva bene.

Più si dibatteva, più strettamente la rete si appiccicava e lo imprigionava. Alla fine, furioso, ansimante, si trovò completamente avvolto. Soltanto allora una voce parlò, bassa e raschiante. Un coltello tagliò la rete, per lasciare esposto il viso. Alla fioca luce delle lontane torce, egli vide altre due figure avviluppate da quel bozzolo, e una dozzina di forme bitorzolute. Il puzzo di frutta marcia era soffocante.

«Io sono Ghaghrill, lo Zdrrikh’agh di Abbkmung. Voi siete Robert Wolff e il nostro grande nemico Kickaha, e il terzo non lo conosco.»

«Il barone funem Laksfalk!» disse il giudeo. «Liberami, e scoprirai subito se io sia un uomo buono da conoscere o no, marciume puzzolente!»

«Zitto! Sappiamo che avete ucciso in qualche modo due dei nostri migliori uccisori, Smeel e Diskibibol, anche se loro non dovevano poi essere così tremendi, se sono riusciti a farsi sconfiggere da gente come voi. Abbiamo visto cadere Diskibibol dal nostro nascondiglio nei boschi. E abbiamo visto Smeel saltare col corno.»

Ghaghrill fece una pausa, poi proseguì:

«Tu, Wolff, andrai a cercare il corno nelle acque e lo porterai da noi. Se lo farai, giuro per l’onore del Signore che vi lasceremo liberi tutti e tre. Il Signore vuole Kickaha, ma non quanto il corno, e ha detto che non dovevamo ucciderlo, anche se per non farlo avessimo dovuto lasciarlo scappare. Noi obbediamo al Signore, perché è il più grande degli uccisori.»

«E se rifiuto?» disse Wolff. «Con i draghi d’acqua, nel fossato per me sarebbe morte quasi certa.»

«Sarebbe morte certa, se rifiutassi.»

Wolff ci pensò su. Era logico che scegliessero lui, fu costretto ad ammettere. La tempra e la fedeltà del giudeo non erano conosciute dai gworl, e Kickaha, che costituiva un prezzo inferiore solo al corno, era anche gravemente ferito, e la ferita avrebbe subito attirato su di lui i draghi d’acqua. Wolff, se era amico di Kickaha, sarebbe tornato. Certo, non potevano giurare sulla profondità dei sentimenti di Wolff per Kickaha. Questo era un rischio che avrebbero dovuto correre comunque.

Una cosa era certa. Nessun gworl si sarebbe avventurato in acque così profonde, se poteva fare in modo che un altro compisse il lavoro.

«Benissimo» disse Wolff. «Liberatemi, e andrò a prendere il corno. Ma almeno datemi un coltello per difendermi dai draghi.»

«No!» disse Ghaghrill.

Wolff si strinse nelle spalle. Quando fu libero dalla rete, si tolse tutti gli indumenti, tranne la camicia. Questa copriva la corda arrotolata intorno alla vita.

«Non farlo, Bob» disse Kickaha. «Non puoi fidarti di un gworl, come non puoi fidarti del suo padrone. Ti prenderanno il corno e poi ci faranno quel che vorranno. E rideranno di noi, per essere stati i loro strumenti.»

«Non ho scelta» disse Wolff. «Se trovo il corno, sarò di ritorno. Se non ritornerò, saprai che sono morto tentando.»

«Morirai comunque» disse Kickaha. Si udì il colpo di un pugno. Kickaha bestemmiò sottovoce.

«Di’ ancora un’altra parola, Kickaha» disse Ghaghrill, «e ti taglierò la lingua. Questo il Signore non lo ha proibito.»

CAPITOLO XIV

Wolff guardò la finestra, dalla quale filtrava ancora il chiarore di una torcia. Entrò nell’acqua, che era fresca ma non gelida. I suoi piedi affondarono nella viscida melma che evocava l’immagine degli innumerevoli cadaveri che di quella melma dovevano fare parte integrante. E non riuscì a non pensare ai sauriani che stavano nuotando nel fossato. Se era fortunato, non ne avrebbe trovati nelle immediate vicinanze. Se avevano portato via i corpi di Smeel e Diskibibol… Era meglio smettere di preoccuparsi, e cominciare a nuotare.

In quel punto, il fossato era largo quasi duecento metri. Si fermò a metà percorso, voltandosi indietro a guardare. Nessuno del gruppo era visibile.

D’altra parte, nemmeno loro potevano vederlo. E Ghaghrill non gli aveva dato limiti di tempo per il ritorno. Comunque, sapeva che, se non fosse ritornato prima dell’alba, non li avrebbe trovati.

Si immerse in un punto immediatamente sottostante la luce che veniva dalla finestra. Scese, e a ogni centimetro l’acqua si faceva più fredda. Sentì un fastidio alle orecchie, che divenne presto un dolore lancinante. Emise qualche bolla d’aria per diminuire la pressione, ma questo non gli fu di grande giovamento. Quando capi di non potere scendere per un altro millimetro senza che le orecchie esplodessero, incontrò una melma soffice e vischiosa. Lottando contro l’impulso che lo spingeva a risalire immediatamente per alleviare la pressione, cominciò ad andare a tentoni intorno, imbattendosi soltanto in fango e in un osso. Continuò a cercare fino a quando comprese di non potere più resistere.

Emerse due volte alla superficie, e due volte si immerse di nuovo. Ormai, sapeva che, anche se il corno si fosse trovato sul fondo, avrebbe potuto non trovarlo mai. Cieco nell’acqua fangosa e limacciosa, poteva passare a un capello dal corno, e non riuscire a trovarlo. E poi, era possibile che Smeel avesse gettato lontano il corno, durante la caduta. Oppure un drago d’acqua avrebbe potuto portar via il corno, o addirittura averlo inghiottito.

La terza volta, nuotò a poca distanza sulla destra del punto delle sue precedenti immersioni, prima di immergersi. Scese sul fondo a quello che sperava fosse un angolo di novanta gradi col fondo. Nell’oscurità, non aveva modo di determinare la direzione. La sua mano pescò nel fango; cominciò a cercare e le dita si chiusero su del freddo metallo; passandole rapidamente su di esso, individuò sette piccoli tasti.

Quando raggiunse la superficie, sputò acqua e cercò di respirare affannosamente. Adesso doveva tornare indietro, sperando di farcela. Potevano esserci sempre i draghi in giro.

Poi dimenticò i draghi, perché non poté vedere niente. La torcia sul ponte, il debole chiarore della luna tra le nubi, la luce della finestra sopra di lui, si erano spenti tutti insieme.

Wolff si costrinse a considerare con calma la sua situazione. Per prima cosa, non c’era vento. L’aria era immobile. Così, poteva trovarsi solo in un posto, ed era stata una fortuna che quel posto fosse proprio sopra al punto della sua immersione. Inoltre, era stato fortunato a essere risalito dal fondo ad angolo obliquo.

Comunque, non riusciva a vedere da quale parte fosse la riva e da quale il castello. Scoprirlo fu questione di poche bracciate. Le sue mani incontrarono la pietra… mattoni di pietra. La seguì a tentoni, fino a che si incurvò verso l’interno. Seguendo la curva, finalmente raggiunse quello che aveva sperato. Era una rampa di scale di pietra, che si sollevava dall’acqua e saliva.

Salì lentamente, tendendo le mani per premunirsi da eventuali ostacoli. I suoi piedi scivolarono su ogni gradino, pronti a fermarsi se appariva un’apertura o un gradino pareva cedere. Dopo venti gradini, giunse in cima alle scale. Si trovò in un corridoio scavato nella pietra.

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