Philip Farmer - Il fabbricante di universi

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Il romanzo racconta la storia di Robert Wolff, insegnante universitario in pensione, che seguendo il rumore di uno squillo di tromba apre la porta del ripostiglio e si ritrova in un mondo fantastico, chiamato Mondo dei Livelli.
Il Mondo dei Livelli è una specie di gigantesca torre, i cui piani sono abitati da diverse civiltà. Nei piani inferiori vivono le più primitive mentre salendo diventano via via più progredite. In cima alla torre vive una specie di semidei, esseri umani in grado di fabbricare interi universi.
Wolff, con l’aiuto di un indigeno di nome Kickaha scopre di essere il creatore di quel mondo, e si trova a dover intraprendere una lotta per scacciare gli usurpatori e riprendere il proprio rango.

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«Puoi rabbrividire» disse Ipsewas. Il suo volto sorridente apparve sopra la nicchia del guscio. «Quella era una prediletta di Podarge. Podarge odia il Signore e lo attaccherebbe da sola, se ne avesse la possibilità, anche sapendo che questo potrebbe significare la sua fine. E così sarebbe. Sa di non potersi avvicinare al Signore, ma può dire alle sue predilette di attaccare gli Occhi del Signore. E loro eseguono, come hai visto.»

Wolff lasciò la nicchia e rimase immobile per un poco, seguendo con lo sguardo la figura lontana dell’aquila e della sua preda.

«Chi è Podarge?»

«È, come me, uno dei mostri del Signore. Anche lei, una volta, viveva sulle coste dell’Egeo; era una fanciulla bellissima. Questo accadde quando il grande re Priamo e il divino Achille e lo scaltro Ulisse vivevano. Li ho conosciuti tutti; essi sputerebbero sul cretense Ipsewas, una volta coraggioso marinaio e abile lanciere, se adesso potessero vedermi. Ma stavo parlando di Podarge. Il Signore la portò nel suo mondo e fabbricò un corpo mostruoso e mise in esso il suo cervello.

«Vive lassù, non so dove, in una caverna sulla montagna. Lei odia il Signore; odia anche ogni essere umano normale, e lo divora, se non ci pensa prima una delle sue pupille. Ma sopra ogni cosa, lei odia il Signore.»

Sembrava che questo fosse tutto ciò che sapeva su di lei Ipsewas, oltre al fatto che Podarge non era stato il suo nome, prima che il Signore l’avesse presa. Ricordava anche di averla conosciuta bene. Wolff gli fece altre domande, perché gli interessava quello che Ipsewas poteva dirgli di Agamennone, Achille e Ulisse e degli altri eroi dell’epica omerica. Disse allo zebrilla che si pensava che Agamennone fosse stato un personaggio storico. Ma Achille e Ulisse? Erano realmente esistiti?

«Certo che sì» disse Ipsewas. Grugnì, poi continuò: «Immagino che tu sia curioso di conoscere qualcosa su quei tempi. Ma ti posso dire ben poco. È passato troppo tempo. Troppi giorni inutili. Giorni? Secoli, millenni… solo il Signore lo sa. E c’è stato anche troppo alcool.»

Durante il resto del giorno, e parte della notte, Wolff cercò di far parlare Ipsewas, ma riuscì a ottenere ben poco. Ipsewas, annoiato, bevve metà della sua provvista di noci, e finalmente cominciò a russare. L’alba giunse, verde e dorata, dal fianco della montagna. Wolff guardò l’acqua, così limpida che egli poteva vedere le centinaia di migliaia di pesci, dalle forme fantastiche e dai colori splendidi. Un pesce color arancio carico uscì dagli abissi, con in bocca una creatura simile a un diamante vivo. Un polpo dalle chiazze purpuree, arretrando di scatto, fece una brusca giravolta. Molto, molto in basso, una cosa enorme e bianca apparve per un istante, poi tornò a scendere verso il fondo.

Dopo qualche tempo, udì il rombo della risacca, e una sottile linea bianca apparve sulla base della Thayaphayawoed. La montagna, così levigata in lontananza, ora appariva rotta da crepacci, fessure e guglie, da dirupi e scarpate e immobili fontane di pietra. La Thayaphayawoed saliva e saliva e saliva; sembrava incombere sul mondo.

Wolff scosse Ipsewas finché, lamentandosi e brontolando, lo zebrilla non si alzò in piedi. Socchiuse gli occhi arrossati, si grattò, tossì, poi allungò la mano verso una noce da cocktail. Finalmente, dietro pressione di Wolff, guidò il pesce-barca, in modo che la sua rotta fosse parallela alla base della montagna.

«Una volta conoscevo questa zona» disse lui. «Una volta pensavo di scalare la montagna, di trovare il Signore, e di cercare di…» Fece una pausa, si grattò il capo, ammiccò, e disse: «Ucciderlo! Ecco! Sapevo di poter ricordare la parola. Ma non è servito a niente. Non ho avuto il coraggio di tentare, da solo.»

«Adesso sei con me» disse Wolff.

Ipsewas scosse il capo, e bevve ancora.

«Adesso non è allora» rispose. «Se allora tu fossi stato con me… bene, a che serve parlare? Allora tu non eri neppure nato. Non era ancora nato il tuo bis-bis-bis-bis-bis-bisnonno. No, adesso è troppo tardi.»

Rimase in silenzio, occupato a dirigere il pesce-barca in un’apertura nella montagna. La grande creatura, improvvisamente, sobbalzò: la grande vela cartilaginea si ripiegò intorno all’albero osseo; il corpo si sollevò, portato da un’enorme ondata. E poi si trovarono nelle acque calme di un fiordo stretto, scosceso e scuro.

Ipsewas indicò una serie di costoni.

«Prendi quella strada. Puoi andare lontano. Quanto, non so dirtelo. Io mi stancai ed ebbi paura e ritornai nel Giardino. Non ritornerò mai più, avevo pensato.»

Wolff supplicò Ipsewas di restare. Gli disse che aveva molto bisogno della sua forza, e che Chryseis aveva bisogno di lui. Ma lo zebrilla scosse il capo.

«Ti darò la mia benedizione, per quello che vale.»

«E io ti ringrazio per quello che hai fatto per me» disse Wolff. «Se non avessi deciso di venire a cercarmi, sarei ancora appeso a una corda. Forse, ti rivedrò. Con Chryseis.»

«Il Signore è troppo forte» replicò Ipsewas. «Pensi di avere una sola possibilità di successo, contro un essere che può crearsi un universo privato?»

«Ho una possibilità di successo» disse Wolff. «Finché combatto e uso il mio ingegno e ho un po’ di fortuna, avrò una possibilità di successo.»

Scese dalla conchiglia, e quasi scivolò sulla roccia bagnata. Ipsewas gli disse:

«Un cattivo auspicio, amico mio!»

Wolff si voltò, gli sorrise e gridò:

«Non credo negli auspici, mio superstizioso amico greco! Arrivederci!»

CAPITOLO V

Cominciò a salire, e non si voltò a guardare indietro finché non fu trascorsa un’ora. Allora il grande corpo bianco dell’histoikhthys non fu che una chiazza sbiadita e lontana, e Ipsewas era un punticino nero su di essa. Sebbene sapesse che lo zebrilla non poteva vederlo, agitò la mano in segno di saluto, e ricominciò a salire.

Dopo un’ora di faticosa scalata, si trovò fuori del fiordo, davanti a un ampio sentiero sul fianco della montagna. Il sole splendeva, lassù. La montagna pareva più alta che mai, e l’ascesa era sempre difficile. D’altra parte, non sembrava più difficile di prima, anche se questa non era una cosa di cui esultare. Le mani e le ginocchia gli sanguinavano, e la scalata lo aveva affaticato. Dapprima, aveva deciso di passare la notte in quel punto, ma aveva cambiato poi idea. Fino a che durava la luce, doveva approfittarne.

Si domandò di nuovo se Ipsewas aveva visto giusto, dicendo che i gworl dovevano avere scelto quella strada. Ipsewas affermava che esistevano degli altri passaggi, dal mare, ma che erano molto lontani. Aveva cercato dei segni del passaggio dei gworl, e non ne aveva trovato alcuno. Questo non voleva dire che avessero preso un’altra strada… se si poteva chiamare strada quella linea verticale contorta.

Dopo pochi minuti raggiunse uno dei tanti alberi che spuntavano dalla stessa roccia. Sotto i suoi rami grigi e attorcigliati, e le sue foglie scure e verdi, si trovavano dei gusci di noce rotti e vuoti, e i torsoli di molti frutti. Erano tracce fresche. Qualcuno si era fermato a mangiare, da poco tempo. La vista gli rinnovò le forze. Inoltre, nei gusci di noce era rimasta polpa sufficiente a soddisfare, seppure parzialmente, i morsi del suo stomaco. I resti dei frutti gli diedero qualcosa per alleviare la sua sete bruciante.

Per sei giorni salì, e per sei notti riposò. C’era vita sulla faccia del dirupo, piccoli alberi e bassi cespugli crescevano sulla roccia, dalle caverne, e dai crepacci. Abbondavano uccelli di ogni genere, e molti piccoli animali. Questi si nutrivano di noci e bacche o dei loro simili. Lui uccise con dei sassi degli uccelli, e ne mangiò la carne cruda. Trovò della selce, e con essa si costruì un coltello rozzo ma efficiente. Con esso, intagliò un ramo di legno e, aggiungendo un’altra selce, fabbricò una lancia. Dimagrì e si irrobustì e le mani, i piedi e le ginocchia si coprirono di callosità. La barba gli si allungò.

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