Invaso dalla calma glaciale che lo travolgeva sempre quando si adirava, Stoner disse: «Benissimo. Ci provi. Dovrà processarmi, e giuro su Dio, se esiste, che non vedo l’ora di finire in tribunale. Se non altro, avrò un avvocato d’ufficio, che sarà già molto di più di quanto lei non mi abbia concesso sino a ora.»
Il piccolo vicecomandante si agitò, irrequieto, e lanciò un’occhiata a McDermott, che non disse niente.
«Mi preparo un drink» annunciò Stoner, alzandosi.
«Buona idea» gli urlò McDermott, mentre lui si dirigeva verso il cucinino-bar. «Già che c’è, mi prepari un Bloody Mary.»
Stoner mugugnò fra sé. “Perché non vuole qualcosa di semplice, come uno scotch con ghiaccio?” Mentre cercava il succo di pomodoro negli armadietti sopra il lavandino, sentì Tuttle gridare: «Ha del succo d’arancia? Lo prendo con un po’ di ghiaccio.»
«Sicuro» rispose Stoner. “E mi faccio pagare poco” aggiunse fra sé.
Preparando i drink, sentì che gli altri due parlavano. Quando lui rientrò in soggiorno coi i tre bicchieri su un vassoio, Tuttle e McDermott avevano disteso sul pavimento una grande cartina geografica e la stavano studiando con aria intenta. Appoggiando il vassoio sul tavolino da caffè, Stoner guardò la legenda della carta: “Atollo di Kwajalein”.
«Ma voi non avete famiglia?» chiese Stoner, prendendo il suo Jack Daniel’s. «Porca miseria, è domenica pomeriggio e mancano cinque giorni a Natale, Cristo santo.»
«Dobbiamo lavorare» rispose Tuttle senza staccare gli occhi dalla carta.
«Volete guardare la partita di calcio in televisione?» chiese ironico McDermott.
«Voglio vedere i miei figli a Palo Alto» disse Stoner.
«Le andrà bene se le permetteremo di fare una telefonata la vigilia di Natale» abbaiò McDermott.
Stoner tornò a sprofondare nel divano. «E così vi mandano a Kwajalein, in fin dei conti. Ottimo. Non vi meritate Arecibo. Il Portorico è un posto troppo bello per bastardi come voi.»
«Non c’è bisogno di usare un linguaggio del genere» disse Tuttle.
«Sono già stato privato della mia libertà. Non cercate di togliermi anche la libertà di parola.»
«Avete trasmesso informazioni riservate all’Unione Sovietica» disse Tuttle, e il suo viso tondo s’imporporò un poco. «È una violazione dei regolamenti di sicurezza. Se volessimo, potremmo accusarvi di spionaggio.»
«E, come vi ho già detto, basterebbe un avvocato di mezza tacca per mandarvi nella merda con l’accusa di detenzione illegale, sequestro di persona, rapimento… Porca miseria, non mi hanno nemmeno letto i miei diritti.»
Tuttle gli lanciò un’occhiataccia, e Stoner capì che l’uso di un linguaggio un po’ volgare turbava l’omettino più della situazione legale in cui si trovava.
McDermott interruppe il loro duello di sguardi. «Stia a sentire, Stoner, deve ficcarsi in testa che quello che stiamo facendo qui è troppo importante per permettere a qualche quisquilia legale di fermarci.»
«Provi a raccontarlo a un giudice. O a una giuria.»
«Lei non andrà davanti a un giudice» disse Tuttle, con aria di sufficienza. «Lei verrà con noi a Kwajalein e resterà sull’isola finché non ci sentiremo pronti a rimetterla in libertà.»
«Il che non accadrà prima della conclusione del PROGETTO JUPITER» aggiunse McDermott. «Stia a sentire, figliolo. Lei può stare con noi o contro di noi, ma in ogni caso andrà a Kwajalein.»
«E allora, che differenza c’è?»
«Una differenza enorme! Se collabora, se lavora con noi, la marina sarà disposta a dimenticare ogni accusa di violazione di sicurezza o di spionaggio. Giusto, Fred?»
Tuttle annuì. «Ma se non collabora, riuniremo una corte federale a Kwajalein, la processeremo lì e la chiuderemo su una delle nostre navi finché non saremo pronti a trasferirla in una prigione federale sulla terraferma.»
Stoner bevve un sorso. «Quindi, testa vincete voi, croce perdo io.»
«Esattamente» disse McDermott.
«Giustizia militare.»
«È tutto legale» ribadì Tuttle. «Mi sono informato.»
Stoner rise. «Legale. La giustizia militare sta alla giustizia come l’intelligenza sta alle teste dei militari.»
Tuttle prese la frase sul serio. «Non voglio sentire malignità del genere. Io ho lavorato col servizio segreto della marina. Non è composto di cretini. Del resto, l’abbiamo incastrata, no?»
«Sì, lo so. Siete talmente intelligenti che abbiamo vinto la guerra del Vietnam» ribatté Stoner.
«Quella è una storia dell’“esercito”! Westmoreland, Voleva solo buone notizie. Conosco parecchi ufficiali dell’esercito che venivano sbattuti nei posti peggiori ogni volta che presentavano un rapporto realistico. E quando i Viet Cong ebbero fatto fuori un bel po’ di questi ufficiali, gli altri cominciarono a capire che Westmoreland voleva solo bollettini di vittoria e sogni ottimistici. Così si misero a fare rapporti fasulli, e ne ebbero sempre in premio incarichi meno duri, in posti più vicini alle nostre basi, dove i rischi erano minori.»
«E abbiamo perso la guerra.»
Tuttle annuì, con un certo astio. «Ma la colpa è stata dell’esercito, non nostra. Non fosse stato per il mio servizio segreto, il PROGETTO JUPITER forse non sarebbe nemmeno partito. Quando il professor McDermott mi ha parlato per la prima volta dei segnali radio, sono stato io a pensare di usare Big Eye per scoprire eventuali anomalie. È stata un’idea mia.»
McDermott si imporporò, ma non contraddisse il vicecomandante.
Stoner disse: «Ed è così che io sono stato trascinato in questa partita, vero?»
«Giusto» disse Tuttle. «E adesso “c’è dentro”, per sempre. Non può uscirne.»
«Allora, vuole stare con noi o contro di noi?» chiese McDermott.
Stoner fissò di nuovo il pavimento, la carta distesa a terra. Ma con gli occhi della mente vedeva le fotografie di Giove, il puntino di luce in movimento che era l’astronave aliena che aveva invaso il Sistema Solare.
Invaso? Stoner restò stupito davanti al suo stesso uso di quel termine. Poi comprese l’importanza dell’interrogativo che stava dietro. “Cosa ci fa qui questa cosa? Da dove viene? Perché è qui? Chi l’ha mandata?”
«Allora?» ripeté McDermott. «Qual è la sua risposta?»
Anziché rispondere, Stoner si alzò e sì diresse in cucina. «Infilatevi i cappotti» disse. «Voglio farvi vedere qualcosa.»
Perplessi, mugugnanti, i due seguirono Stoner all’esterno. Sì misero i cappotti, mentre Stoner s’infilava una giacca a vento.
Fuori faceva freddo, ma l’aria era chiara e secca. Il sole non scaldava, ma la casa fermava il vento, lo teneva lontano dalla piccola area recintata dietro la cucina.
«Ciao, Burt» disse Stoner alla guardia della marina. McDermott e Tuttle lo osservavano in un silenzio confuso.
Burt era un dipendente civile della marina che normalmente se ne stava seduto in un ufficio di Boston. Gli pagavano stipendio doppio per sorvegliare il cancello di metallo che chiudeva il patio sul retro della casa. Stoner gli sorrise. Burt era sui cinquant’anni, corpulento, dotato di un corpo che un tempo era stato forte ma che ora conteneva più birra che muscoli.
«Burt sta di guardia qui la domenica» spiegò Stoner a McDermott e Tuttle «quando Dooley e i ragazzi più giovani hanno il giorno libero.»
«Ehi, dottor Stoner» disse Burt, con un ampio sorriso «ho ripensato a quelle assi che la settimana scorsa ha spezzato con le mani. La prima volta che avrò bisogno di tagliare legna, saprò a chi rivolgermi.»
Stoner gli restituì il sorriso. «Sicuro, Burt. Vieni pure da me.»
Si mise in posizione perfettamente eretta e costrinse il suo corpo a rilassarsi. “Il tae kwon do è una disciplina” si disse. “Il vero discepolo non cerca la lotta.”
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