— Ecco di nuovo gli insetti e gli uccelli — disse Lane.
— E i Gizmo — aggiunse la Warren con calma.
Puntò il dito: proprio mentre i tre guardavano, una pernice cadde sbattendo le ali, e rimase a terra inanimata. L’erba intorno palpitava lievemente, come se sul corpicino premessero delle bolle di gas. Lane rimise subito in moto.
La pernice morta tuttavia fu un particolare trascurabile nello sviluppo successivo degli avvenimenti, quando si verificarono vari incidenti che rivelavano uno stato di cose anormale.
In una fattoria dell’Alabama, un contadino negro s’era rivolto a un medicone per metter fine all’epidemia scoppiata tra i suoi polli. A mezzanotte costui aveva bruciato all’interno del pollaio un gran mucchio puzzolente di piume, radici, polveri e altri rifiuti. Mentre quella roba ardeva il medicone recitava frasi misteriose, senza un senso definito, frasi che in realtà venivano dal Golfo di Guinea attraverso generazioni di taumaturghi e che in origine avevano un significato spaventoso. Un fumo densissimo usciva dal pollaio e dentro vi stagnava un puzzo che mozzava davvero il respiro. Il medicone uscì all’aperto, tossendo e dichiarando che da allora in poi i polli potevano starsene tranquilli nel nido.
E fu proprio così. Il medicone aveva recitato formule magiche per cacciare spiriti, demoni, esseri invisibili che attaccavano i polli e li facevano trovare al mattino morti nel pollaio. Incantesimi e suffumigi lasciarono inebetiti i polli scampati alle stragi, ma la perizia professionale del medicone doveva rivelarsi ben fondata. Le bestie ormai erano al sicuro dai Gizmo: pennuti e pollaio emanavano un odore che i Gizmo non sopportavano, e il ciarlatano aveva dato un valido contributo alla caccia ai Gizmo.
Un altro caso. A Tarzana, in California, un malato d’asma, di notte s’era come al solito sentito soffocare. C’era abituato e non badò al lieve sibilo. Anziché annaspare nel vuoto, cercò sul tavolino da notte la fialetta che aveva posato su un fazzoletto pulito. La spezzò e accostò il fazzoletto al naso. L’odore pungente del nitrato di amile si diffuse nell’aria e lui poté di nuovo respirare. Ma non ci fu un graduale miglioramento, come gli capitava di solito: un attimo prima soffocava, un attimo dopo respirava perfettamente. L’odore del nitrato era pungente e il malato si abbandonò sui cuscini ancora spaventato, ma più calmo. Le orecchie gli ronzavano ancora e il cuore gli batteva forte, ma era abituato agli attacchi di asma.
Non sentì il lieve sibilo diventare acuto, spegnersi in un urlo brevissimo. Non gli venne in mente che un Gizmo aveva aspirato i vapori del nitrato di amile: non aveva mai sentito parlare di Gizmo, e non poteva sapere che un’entità gassosa con metabolismo gassoso reagisce al nitrato di amile come reagirebbe un essere umano a un bagno nell’acido nitrico.
Incidenti simili non erano frequenti. Tuttavia è tipico il fatto che la distruzione di Serenity e la strage degli animali domestici non furono mai messi in relazione con fatti come quelli del medicone e dell’attacco di “asma”.
Dalle foreste del Maine, del Minnesota, della Georgia, dell’Oregon, furono segnalate migrazioni di selvaggina. In vari posti, le volpi traversavano furtivamente i campi di soia, e i cervi si trasferivano cautamente in zone dove da anni non se ne vedevano più. Gli animali selvatici fuggivano dai boschi verso le zone abitate; preferivano il pericolo noto, gli uomini, ai mostri invisibili che sibilavano nelle zone solitarie.
Proprio mentre Lane si allontanava dalla pernice, nuova vittima dei Gizmo, a una cinquantina di chilometri, nella Virginia occidentale, un folto gruppo di uomini sorvegliava la zona dove s’erano riversate le bestie fuggiasche.
Molto prima dell’alba s’era sparsa la notizia dell’esodo. Qualche campo era stato risparmiato, altri erano parzialmente distrutti, e alcuni contadini, quel mattino, s’erano trovati gli orsi in cortile. Erano subito corsi dalle autorità del luogo che s’erano riunite per discutere il da farsi. Conigli, topi, cervi, marmotte, ogni specie di animale erbivoro, avevano invaso i campi coltivati. Al raduno partecipavano guardie campestri e forestali, e persino un inviato del Ministero dell’Agricoltura, che aveva percorso un centinaio di chilometri per arrivare in tempo. E naturalmente c’erano i giornalisti.
Nelle prime luci del mattino, lo spettacolo era impressionante. Un immenso campo di granoturco, con le piante verdi, una vicina all’altra, piene di foglie, più alte di un uomo, allineate lungo i solchi tracciati con precisione matematica, e che sembravano arrivare fino all’orizzonte. Una strada bloccata al traffico da un’auto della polizia posta di traverso. Dietro, altre macchine, sulla strada e fuori, e altre ancora ne arrivavano e la gente scendeva e proseguiva a piedi. La notizia della migrazione degli animali s’era sparsa fulminea.
E nel campo ogni sorta di bestie: conigli e marmotte intenti a rodere, orsi che andavano su e giù lungo i solchi e strappavano, per fare in fretta, le pannocchie ancora verdi. Qua e là, dei cervi, timidi, che a volte si azzardavano a brucare le cime più tenere. Il più delle volte però vagavano a gruppetti spinti dal terrore calpestando e abbattendo tutto. C’erano anche delle volpi, con in bocca qualche minuscolo batuffolo insanguinato, mentre altre bestiole saltavano e correvano. Nella calca le puzzole si aggiravano irritate con le code piumose ritte in segno di collera.
C’era un gran frastuono nel campo di granoturco. Si passava dal panico alla calma precaria, in un punto o nell’altro. Intanto le piante di granoturco cadevano e il contadino, che vedeva il raccolto scomparire sotto i suoi occhi, invocava disperato gli agenti, le guardie forestali, il rappresentante del Ministero dell’Agricoltura. La sua famiglia aveva abbandonato la fattoria, e le provviste nel granaio e nel fienile erano in balia dei predatori, che pure erano come interdetti, fra tanta abbondanza. Le donnole minacciavano le galline, e i fiori del suo magnifico granoturco pendevano spezzati, e dappertutto un gran ruminio, strilli, brontolii, grugniti, bramiti, e altri rumori fiochi che non provenivano dalle bestie.
Non ci fu nessuna reazione: la distruzione progressiva e massiccia del raccolto continuò. Gli uomini, osservatori ufficiali o semplici curiosi, non riuscirono a fare niente: se ne stettero semplicemente a guardare. Non una parola fra loro, tranne qualche esclamazione di sorpresa, d’angoscia, di sbalordimento. Poi la scena cambiò, ma gli uomini a tutta prima, non se ne accorsero. La cosa non cominciò dove c’era più gente, e forse soltanto qualche animale avvertì i primi leggeri sibili.
La strage delle povere bestie cominciò a un centinaio di metri dall’auto della polizia. Un gruppetto di sei cervi impazzì improvvisamente e si precipitò alla cieca attraverso i solchi affollati, inseguito da sibili acuti e rabbiosi. Poi s’impennò un orso e lottò contro il nulla. Altri sibili, e i conigli scalciarono convulsamente e le volpi scattarono e lottarono contro gli esseri invisibili, e topi e scoiattoli stridevano mentre cadevano, soffocati e le donnole continuavano a rotolarsi azzannando soltanto l’aria.
Gli uomini si resero conto del pericolo quando una lince si lanciò in mezzo a loro ciecamente, pazzamente, lottando contro il nulla. Poi i conigli si buttarono tra le macchine, e morivano in preda alle convulsioni; le volpi correvano in mezzo alla gente, azzannando furiosamente gli esseri invisibili, poi stramazzavano e morivano tra un fuggi-fuggi generale.
La gente non avvertì i sibili, nel tumulto delle povere bestie inferocite e disperate. Ma anche in mezzo agli uomini c’erano frastuono e confusione, la gente si urtava e urlava in preda al panico. Tutti correvano verso le loro macchine o cercavano di salire dove capitava. Chiudevano i finestrini, mettevano in moto e in breve sulla strada regnò il caos. Parafanghi ammaccati, clacson scatenati e le macchine che tagliavano tra i campi, in mezzo al grano, pur di uscire dall’ingorgo.
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