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Ursula Le Guin: Su altri piani

Здесь есть возможность читать онлайн «Ursula Le Guin: Su altri piani» весь текст электронной книги совершенно бесплатно (целиком полную версию). В некоторых случаях присутствует краткое содержание. Город: Milano, год выпуска: 2005, ISBN: 978-88-429-1328-3, издательство: Nord, категория: Фантастика и фэнтези / на итальянском языке. Описание произведения, (предисловие) а так же отзывы посетителей доступны на портале. Библиотека «Либ Кат» — LibCat.ru создана для любителей полистать хорошую книжку и предлагает широкий выбор жанров:

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Ursula Le Guin Su altri piani

Su altri piani: краткое содержание, описание и аннотация

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L’antologia è composta da racconti legati da un filo conduttore descritto nel primo racconto che fa da introduzione agli altri. L’opera trae spunto dalla possibilità di spostarsi in dimensioni parallele, detti piani, e rappresenta una specie di diario di viaggio narrato in prima persona dall’autrice stessa come se fossero esperienze vissute in prima persona o riferite da autentici conoscenti. Ogni dimensione offre spunto per la descrizione di una realtà fantastica ed affascinante, spesso rappresentazione allegorica e satirica della nostra, ma sempre ricca di poesia, sul filone de di Jonathan Swift.

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Poi mi passò davanti un uomo d’affari — collegato alla rete dei computer attraverso un auricolare, un piccolo altoparlante e il video nella lente sinistra degli occhiali — il quale continuava a dare ordini mentre studiava i rapporti di mercato. Mi arrivava alla cintola o poco più.

Quattro ragazzi passavano sul marciapiedi opposto al mio; non avevano nulla di strano, a parte il fatto di essere esattamente identici. Poi giunse un ragazzino che trotterellava in direzione della scuola, con lo zainetto sulle spalle. Trotterellava davvero, a quattro zampe, graziosamente, con le mani infilate in guanti o zoccoli di cuoio che le proteggevano dalla pavimentazione della strada. Era pallido, con gli occhi piccoli e un muso al posto della faccia, ma era adorabile.

Un caffè con i tavolini sul marciapiedi, accanto a un giardino del centro, aveva appena aperto. Non sapevo cosa consumassero gli islai a colazione, ma morivo di fame e avrei mangiato qualunque cosa.

Puntai il mio traduttore verso la cameriera, una donna dall’aria stanca, di una quarantina d’anni, che non aveva niente di straordinario, a parte la bellezza dei capelli, biondi, folti e raccolti in allegre treccine.

«Per favore», le dissi, «mi spieghi che cosa mangiano i turisti a colazione.»

Lei rise, poi mi rivolse un sorriso gentile e bellissimo, e rispose, servendosi del translatomat: «Be’, questo deve dirmelo lei. Noi mangiamo cledif, con la frutta o senza».

«Allora, cledif e frutta, per favore», le chiesi.

Poco dopo, la donna mi portò un piatto di frutta dall’aspetto delizioso e una scodella di un semolino color giallo chiaro, senza grumi, con la densità della crema pasticcera, tiepido. Dalla descrizione, sembrerebbe disgustoso, invece era molto buono: leggero ma saporito, capace di riempirti lo stomaco, e leggermente stimolante come il latte macchiato. La donna attese accanto a me, per vedere se fosse di mio gusto.

«Mi dispiace, ma mi sono scordata di chiederle se è carnivora», si scusò. «I carnivori mangiano a colazione un trancio di cullis, oppure cledif con rigaglie.»

«Va benissimo quello che mi ha portato», le assicurai.

Nel locale non c’era nessuno, e lei mi aveva trovato simpatica; anch’io la trovavo di mio gradimento.

«Posso chiederle di dov’è?» mi domandò, e fu così che cominciammo a parlare. Si chiamava Ai Li A Le. Presto mi accorsi che non soltanto era una persona intelligente, ma che era dotata di un’ottima istruzione. Era laureata in patologia delle piante, ma era fortunata, mi disse, di avere trovato lavoro come cameriera. «Dopo il Bando», spiegò, con un’alzata di spalle. Poi, nel notare che non capivo a cosa si riferisse, stava per spiegarmelo, ma ormai erano arrivati alcuni clienti — a un tavolino un omaccione taurino, a un altro due ragazzine, minute come uno scricciolo — e lei dovette andare a prendere le ordinazioni.

«Volevo spiegarglielo», si scusò, e aggiunse, con un sorriso gentile: «Be’, se torna oggi pomeriggio alle quattro, posso sedermi a parlare con lei».

«Verrò», le promisi, e quel pomeriggio fui di nuovo da lei.

Dopo aver passato qualche ora nel parco e nella città, tornai all’hotel per il pranzo e per schiacciare un pisolino, poi presi la monorotaia e ritornai in centro.

Non avevo mai visto una tale varietà di persone come tra i passeggeri della vettura: c’erano tutte le forme, le dimensioni, i colori, la quantità di capelli, peli e piume (quella che mi era parsa una coda, nel caso della spazzina, era davvero una coda) e anche fogliame, pensai, osservando un giovanotto alto, magro e dalla pelle verde. Quelle che aveva sulle orecchie erano davvero foglie? Lo sentivo sussurrare, al soffio del vento caldo pomeridiano che entrava nella vettura dai finestrini aperti.

La sola cosa che gli islai avessero in comune, purtroppo, era la povertà. Un tempo, senza dubbio, la città era prospera: in un passato non molto lontano. La monorotaia era un prodigio di ingegneria e di design, ma la vettura era vecchia, la gomma del pavimento era logora e la vernice scrostata. Gli edifici antichi sopravvissuti, che mantenevano le proporzioni a cui ero abituata, erano ricchi ma fatiscenti, e soffocati da giganteschi edifici moderni, da case di bambola e altre costruzioni che sembravano stalle, scuderie o conigliere: un guazzabuglio terribile, costruito in economia, dall’aspetto fragile e in pessimo stato.

Anche gli islai erano male in arnese, quando non erano vestiti di veri e propri stracci.

Alcuni dei più pelosi o dei più piumati portavano solo la pelliccia o le piume. Il ragazzo verde portava un perizoma per pudore, ma tronco e braccia, coperti di un’epidermide ruvida, erano nudi. Quella nazione aveva profonde e severe difficoltà economiche.

Ai Li A Le sedeva a un tavolino del cledifab vicino a quello dove lavorava lei. Mi sorrise e mi invitò a sedere; io mi accomodai al suo tavolino. Si era fatta servire una tazzina di cledif freddo con spezie; ne ordinai una anche per me.

«La prego, mi racconti del Bando», le chiesi.

«Una volta assomigliavamo a voi», mi rispose.

«E che cosa successe?»

«Be’», cominciò, con una leggera esitazione. «A noi piace la scienza. Ci piace anche l’ingegneria. Siamo bravi ingegneri. Ma forse non siamo altrettanto bravi come scienziati.»

Per riassumere il suo racconto, il forte degli islai erano la fisica pratica, l’agricoltura, l’architettura, l’urbanistica, l’ingegneria e le invenzioni, mentre il loro debole erano le scienze biologiche, la storia e la teoria. Avevano i loro Edison e i loro Ford, ma nessun Darwin e nessun Mendel. Quando i loro aeroporti cominciarono a essere come i nostri, se non peggio, scoprirono il viaggio interplanario. Su qualche altro piano, un centinaio di anni fa, uno dei loro scienziati scoprì la genetica applicata. La riportò a casa e tutti ne rimasero affascinati. Ne impararono subito i principi. O forse non li impararono (abbastanza) bene, prima di cominciare ad applicarli a tutte le forme viventi che avevano a loro disposizione.

«Iniziarono con le piante», mi spiegò. «Cambiare i vegetali perché dessero più frutti, o perché resistessero a virus e batteri, o per uccidere gli insetti e così via.»

Annuii. «Anche noi ne facciamo un mucchio» , commentai.

«Davvero? Allora, anche lei…» Tradì un leggero imbarazzo, come se non sapesse come formulare la domanda che l’incuriosiva. «Da parte mia», confessò infine, timidamente, «sono mais.»

Controllai il display del translatomat. Uslu: mais, granturco. Anche la funzione dizionario mi confermò che l’uslu di Islac e il mais del mio piano erano la stessa pianta. Conoscevo la strana caratteristica del granturco: non ha una forma selvatica, solo un lontano antenato che non gli somiglia affatto. È in tutto e per tutto il risultato di una lunga selezione operata dagli antichi agricoltori e raccoglitori. Un vecchio miracolo genetico… ma cosa aveva a che fare con Ai Li A Le?

Ai Li A Le con i suoi meravigliosi, folti capelli color dell’oro, color del grano, che scendevano a trecce dall’alto della nuca…

«Solo il quattro per cento del mio genoma», precisò lei. «Ho anche lo zero virgola cinque di pappagallino, ma è recessivo. Grazie a Dio.»

Io stentavo ancora ad assorbire quanto mi aveva detto. Penso che abbia avuto la risposta dal mio silenzio carico di stupore.

«Erano assolutamente irresponsabili», disse con severità. «Con tutti i loro programmi e le loro politiche per migliorare ogni cosa, sono stati degli imbecilli. Hanno lasciato libere di mescolarsi tra loro tutte le forme. In dieci anni, il riso è stato spazzato via. I ceppi ottimizzati sono diventati sterili. Le carestie sono state terribili… Le farfalle, una volta c’erano le farfalle. Voi le avete?»

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