«D’accordo, lo terremo presente» disse Smine seccamente. «Andiamo avanti.»
«Bene. Le indicibili crudeltà ordinate dal re erano inflitte solo a poche persone. Difficilmente avvenivano in sua presenza, e gli urli provenienti dalla camera delle torture non giungevano sino agli appartamenti del re. In entrambi i casi, egli non vedeva più le sue vittime. Aveva dimenticato di avere una coscienza perché la sua coscienza non era mai messa alla prova. E il popolo era propenso a passare sopra la sua limitata crudeltà fintantoché lo lasciava godersi tutta la bellezza di cui aveva bisogno. È stato solo nel momento in cui egli ha tentato di contrastare la passione del popolo per la bellezza, che c’è stata la rivolta.»
«Questo lo ricordo» disse Smine. «La donna e la veste sacerdotale. Non lo capisco, ma lo accetto.»
«Ci voleva però qualcosa che mettesse in conflitto la coscienza del re e la passione del popolo per la bellezza. Fu allora che diedi le trombe ai villaggi dei monchi. I Kurriani si innamorarono immediatamente di quella musica, e perché no? Anche poche note confuse su uno strumento del tutto nuovo li avrebbero affascinati, e i trombettieri di Tor suonavano splendidamente. Il re rimase di stucco tale quale i suoi sudditi. Il giorno in cui arrivarono i trombettieri lasciò da parte ogni altra preoccupazione, perfino il minaccioso problema della Squadra B, e rimase tutto il pomeriggio alla finestra ad ascoltare la musica. E non si rese conto che i trombettieri erano le sue vittime monche. Li vide solo da lontano, le ampie vesti celavano il braccio mancante, e non uno dei suoi cortigiani osò dirgli chi erano in realtà quei suonatori.
«Da buon re qual era, diede ai suoi sudditi ciò che lui e loro desideravano: ordinò una festa per far suonare i trombettieri. Fu solo quando li vide da vicino, dal palco reale, che capì chi erano. Questa sorpresa lo sbalordì a tal punto che rimase impietrito, seduto nel suo palco lasciando che suonassero per ore e ore.
«Ma, una volta terminato lo spettacolo, doveva fare qualcosa, e farla subito. Era così abituato a tenersi le vittime lontano dagli occhi e dalla mente che non sopportava l’idea di vedersele davanti ovunque andasse, circondate dalla folla plaudente. Il gesto era inevitabile: bisognava bandire la musica delle trombe e ordinare ai trombettieri di rientrare nelle loro moncopoli.
«Il che portò la sua coscienza in conflitto diretto con la passione nazionale per la bellezza. La musica era magnifica, la gente non vi vedeva alcun male, e altrettanto inevitabilmente, il popolo rifiutò di lasciare esiliare i trombettieri. Il buon re improvvisamente non fu più il buon re di nessuno, e più la gente pensava alle sue azioni passate, alla luce della sua contrastata passione per la musica delle trombe, più lo detestava. Quando il re chiese aiuto al funesto Uccello del Male per domarli, il loro ragionamento li portò logicamente a considerare il re come l’essenza del male.
«È tutto qui: un popolo con una traboccante passione per la bellezza, un re dalla coscienza insonnolita, e un gran musicista per far nascere il conflitto. In più, naturalmente, tutto l’ingegno e la connivenza che la Squadra B potesse esercitare. Vi basta questa spiegazione?»
«Ma…» Il vice-direttore aggrottò la fronte. «Ciò che desidero, Amministratore, è la formula di questo principio. Qualcosa di condensato, espresso in termini universali, che si possa applicare ad altri casi.»
Forzon annuì. L’Ente per le Relazioni Interplanetarie voleva uno slogan da stampare in maiuscole nere nel Manuale Operativo 1048-K, qualcosa come: LA DEMOCRAZIA IMPOSTA DALL’ESTERNO… eccetera eccetera.
«Mettiamola così» disse: «Quando le trombe risuonano, neppure il più sfrenato dei monarchi può ignorare il risveglio della propria coscienza.»
FINE