«Posso andare adesso, Pa’?» chiese Steve. «Hanker e io dobbiamo prendere lezioni da Tom.» Ed era vero.
«No» rispose il vecchio Nicolin, ancora chino a ispezionare la rete. «Ci aiuterai a sistemare questa rete. E poi andrai a dare una mano a tua madre e alle tue sorelle per pulire il pesce.»
All’inizio John aveva mandato Steve a imparare a leggere dal vecchio, perché riteneva che per la famiglia fosse un segno di prosperità e distinzione. Poi, quando Steve ci aveva preso gusto (ma ce n’era voluto!), John aveva iniziato a tenerlo lontano dall’istruzione: un’altra arma nella battaglia sempre in corso fra loro due. John si raddrizzò, fissò Steve; era poco più basso del figlio, ma molto più robusto. Tutt’e due avevano la stessa mascella volitiva, lo stesso ciuffo di capelli castani, occhi celesti, naso dritto e marcato… Si scambiarono un’occhiata astiosa: John sfidava Steve a rimbeccarlo davanti a tutti gli uomini affaccendati lì attorno. Per un istante pensai che sarebbe successo, che Steve l’avrebbe sfidato, iniziando così chissà quale sanguinoso litigio. Ma Steve gli girò le spalle e a passo deciso si diresse ai banchi di pulitura. Aspettai un attimo che si calmasse un poco, poi gli andai dietro.
«Vado su io e dico al vecchio che verrai più tardi.»
«D’accordo» rispose Steve, senza guardarmi. «Vengo appena posso.»
Il vecchio Nicolin mi diede tre persici; li portai su per la scogliera in una sacca di rete che avrei dovuto restituire. Nel gruppo di case alla seconda curva del fiume non c’era quasi nessuno. Una squadra di ragazze lavava i panni nell’acqua e, più a monte, alcune donne erano ferme intorno al forno dei Mariani. Lassù, lontano dal mare, tutto sembrava più tranquillo; il latrato di un cane risuonò chiaramente dall’altra parte del placido corso d’acqua.
Portai i pesci a Pa’, che subito si alzò con aria famelica dalla macchina per cucire. «Oh, bene, bene. Ci penso io: uno per stasera, gli altri a seccare.» Gli dissi che andavo dal vecchio e lui annuì. Si diede una rapida tirata ai baffi. «Lo mangiamo subito dopo il tramonto, va bene?»
«Benissimo» risposi, uscendo.
La casa del vecchio si trova sulla ripida cresta che segna l’estremità meridionale della nostra valle, in uno spiazzo appena più grande della casa stessa, a circa metà strada dalla cima della montagna più alta. Da nessun’altra casa di Onofre si ha vista migliore. Quando arrivai alla casa, una costruzione quadrata di legno, con quattro stanze e un’ampia finestra sul davanti, non trovai nessuno. Attraversai con prudenza il cortile pieno di cianfrusaglie. Fra le arnie, le pinze tagliafili telefonici, le meridiane, gli pneumatici, i barili con l’imbuto di tela per raccogliere l’acqua piovana, le parti di generatore, i motori rotti, le pendole, i fornelli a gas, le casse piene di chissà cosa, c’erano grossi cocci di vetro e diverse trappole per furfanti che il vecchio spostava di continuo, per cui era saggio fare attenzione. A casa di Rafael, macchine come quelle gettate alla rinfusa nella piccola aia di Tom sarebbero state riparate e rimesse in funzione, oppure utilizzate come parti di ricambio, ma lì erano solo argomenti di conversazione. A cosa serviva un motore d’auto su cavalletti? E come l’aveva portato fin sulla cresta? Tom voleva che ci ponessimo proprio domande del genere.
Continuai a risalire il sentiero eroso che seguiva il crinale. A sud, una serie di costoni coperti di foreste si alzava a partire dalla scogliera sulla spiaggia e arrivava giù fino ai monti Pendleton. In prossimità della cima del costone che risalivo, il sentiero svoltava e scendeva ripidamente nella spaccatura a sud, uno stretto canyon troppo piccolo per contenere tutto l’anno un corso d’acqua, ma nel quale c’era una sorgente. Gli alberi di eucalipto non permettevano la crescita del sottobosco; lì, in un lieve pendio della piega di terra, il vecchio teneva gli alveari, una ventina di piccole cupole bianche in legno. Lo trovai fra le arnie; con la tuta da apicoltore e il cappello, sembrava un bambino negli abiti di un adulto. Ma si muoveva con vivacità… per uno che abbia superato i cent’anni, voglio dire. Passava da un’arnia all’altra, tirava fuori i vassoi e li tastava con la mano guantata, dava un calcio a un alveare, agitava il dito contro un altro, e capivo che non smetteva un attimo di parlare, anche se il berretto gli nascondeva quasi tutto il viso. Tom parlava a tutto e tutti: alla gente, a se stesso, ai cani, agli alberi, al cielo, al pesce nel piatto, alle pietre in cui inciampava… e naturalmente alle sue api. Infilò sotto un alveare un vassoio e si guardò intorno, improvvisamente cauto; mi scorse, agitò la mano in segno di saluto. Mentre mi avvicinavo, tornò a controllare le arnie. Camminava buttando le ginocchia in fuori, come se avesse le rotule all’esterno; e con gesti rigidi e agitati spostava in tutte le direzioni le braccia nascoste dalle lunghe maniche… per tenersi in equilibrio, immagino.
«Fila via dalle arnie, ragazzo. Le api ti pungeranno.»
«Te, non ti pungono.»
Tom agitò il cappello per ricacciare un’ape nell’arnia «In me non trovano più molto da pungere, adesso. E poi non lo farebbero mai: conoscono chi si prende cura di loro.»
Ci scostammo dalle arnie. I capelli del vecchio, bianchi e lunghi, svolazzavano nel vento, sembrava si mischiassero alle nuvole. La barba era rimboccata nella camicia, “così non mangio nessuno dei miei tesorucci”. La nebbia s’alzava già, formava rapidi fiumi opachi. Tom si fregò la testa lentigginosa.
«Togliamoci dal vento, Henry, ragazzo mio. È così freddo che le api fanno le sceme. Dovresti sentire le sciocchezze che dicono. Proprio come quando le affumicano. Prendi una tazza di tè?»
«Volentieri.» Il tè di Tom era così forte che sembrava quasi di fare un pasto.
«Ti sei preparato la lezione?»
«Certo. Hai sentito del cadavere gettato a riva?»
«Sono sceso a dargli un’occhiata. Gettato a riva proprio a nord della foce. Un giapponese, direi. L’abbiamo seppellito in fondo al cimitero, con gli altri.»
«Secondo te cosa gli è successo?»
«Be’…» Svoltammo nel sentiero che portava a casa sua. «Qualcuno gli ha sparato!» Ridacchiò, notando la mia espressione. «Immagino che cercasse di visitare gli Stati Uniti d’America. Ma gli Stati Uniti d’America sono vietati.» Attraversò l’aia senza fare la minima attenzione alle cianfrusaglie; lo seguii da vicino. Entrammo in casa. «Ovviamente qualcuno ci ha dichiarati zona vietata; siamo fuori della palizzata, ragazzo, solo che in questo caso la palizzata è piuttosto scura: le navi che vanno avanti e indietro sono così nere che le vedi anche in una notte senza luna… e sarebbe abbastanza sciocco, se davvero volessero rimanere invisibili. Non ho più incontrato uno straniero… uno straniero vivo, intendo, perché questi morti valgono poco come informatori, eh, eh… dal Giorno. Troppo, per essere semplice coincidenza, anche se non manca qualche segno della loro presenza. Ma il fatto principale è un altro: dove sono? Dal momento che ci sono davvero, là fuori.» Riempì la teiera. «Secondo la mia ipotesi, dichiararci zona vietata era l’unico modo per evitare che si disputassero il nostro territorio e lo distruggessero… ma te ne avevo già parlato, no?»
Risposi con un cenno.
«Eppure, a pensarci bene, non so neppure di chi si tratta.»
«Dei cinesi, no?»
«O dei giapponesi.»
«Allora secondo te stanno a Catalina solo per tenere lontano la gente?»
«So che a Catalina c’è qualcuno, che vive diversamente da noi. È l’unica cosa che so per certo. Da qui, la notte, ho visto le luci accendersi e spegnersi in tutta l’isola. Le hai viste anche tu.»
«Certo. Un vero spettacolo.»
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