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Kim Robinson: La Costa dei Barbari

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Kim Robinson La Costa dei Barbari

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2047: l’America soffre le conseguenze di un attacco nucleare portato a termine in maniera insospettabile da esecutori di nazioni diverse. Da quasi sessant’anni la più grande potenza mondiale è regredita a un’economia di pura sussistenza, e le comunità vivono un’esistenza separata, ristretta ognuna ai propri confini. Lo stato subisce una quarantena mantenuta con ferrea disciplina dalle squadre di sorveglianza militare giapponese e avallata dalle Nazioni Unite. È in questo scenario apocalittico che si svolge la vicenda di Henry Fletcher, un giovane della comunità californiana di San Onofre, che per il suo sostentamento dipende interamente dalla pesca e dai raduni di baratto che si svolgono periodicamente nella valle. Dopo l’arrivo di alcuni viaggiatori di San Diego che hanno osato sfidare la vigilanza dei guardiani giapponesi. Henry viene gradualmente a conoscenza del nuovo mondo e delle sue insidie. La sua guida spirituale è Tom, l’uomo più anziano della valle, sopravvissuto alla catastrofe tristemente nota come II Giorno. La scoperta di un mondo da cui gli americani vengono ingiustamente esclusi, il contatto con gli “stranieri” che vivono a pochi chilometri di distanza, le testimonianze di chi è riuscito a sfuggire alla prigionia in patria trascinano il giovane in un’avventura che segna la fine dell’adolescenza e la transizione verso la maturità, a cui si accompagna la speranza della redenzione per il popolo americano.

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Steve si accigliò. «Gli prendiamo l’anello?»

«No!» esclamò subito Mando. Ridemmo tutti.

«Prendiamo l’anello e la fibbia e le otturazioni d’oro?» ripeté Steve, con voce roca, lanciando a Mando un’occhiata di sbieco. Mando scosse con furia la testa; sembrava sul punto di piangere. Del e io ci mettemmo a ridere; Gabby uscì dallo scavo, con aria disgustata. Steve piegò la testa e rise, una risata breve e rauca. Risalì anche lui. «Prima seppelliamo questo poveraccio, poi andiamo a seppellire il vecchio.»

Buttammo dentro il terriccio con le pale. Le prime zolle colpirono la bara e ne trassero un suono cavo, bonk bonk bonk. Non ci volle molto a riempire la fossa. Mando e io aggiustammo alla meglio le zolle d’erba. A lavoro ultimato, lo spettacolo era orribile.

«Sembra che si sia messo a tirare calci, no?» disse Gabby.

Spegnemmo la lanterna e ce ne andammo. La nebbia fluiva nelle vie deserte come l’acqua nel letto di un fiume; e noi eravamo sotto la superficie, fra rovine sommerse e alghe nerastre. Sull’autostrada ci si sentiva meno sommersi, ma la nebbia spazzava la carreggiata e il freddo era più intenso. Puntammo a sud, all’andatura più veloce possibile, senza dire una parola. Quando ci fummo riscaldati, rallentammo un poco e Steve cominciò a parlare.

«Be’, dal momento che hanno colorato d’argento la plastica, significa che in periodi precedenti le bare avevano davvero maniglie d’argento… le bare della gente più ricca, o di quella sotterrata prima del 1984, o che so io.»

Capimmo tutti che si trattava di un modo indiretto per proporre un altro scavo, per cui nessuno gli diede ragione, anche se l’ipotesi pareva sensata. Steve si offese per il nostro silenzio; guadagnò terreno rispetto a noi, fino a diventare un puntolino nella nebbia. Eravamo quasi fuori San Clemente.

«Una specie di maledetta plastica» diceva Gabby a Del. Cominciò a ridere, sempre più forte, fino a posargli il gomito sulla spalla.

«Ah ah ah… abbiamo passato la notte a scavare fuori due chili di plastica. Plastica!»

D’un tratto un rumore improvviso forò l’aria: un ululato, uno stridio sonoro che iniziò su toni bassi e crebbe sempre più alto e rumoroso. Non era attribuibile a nessuna creatura vivente, era diverso da qualsiasi suono avessi mai udito. Raggiunse l’apice della sonorità, ondeggiò fra due toni, salendo e scendendo, oooooo-eeeeee-oooooo-eeeeee-oooooo , e continuò in questo modo, simile al grido dei fantasmi di tutti i morti sotterrati nell’Orange County, o alle grida finali di tutte le vittime delle bombe.

Ci mettemmo a correre. Il rumore continuò, parve seguirci.

«Che cos’è?» gridò Mando.

«Sciacalli!» sibilò Steve. Il suono salì e scese, più vicino. «Più veloci!» gridò Steve, superandolo. Gli squarci della carreggiata non ci preoccupavano, li superavamo con un balzo. Delle pietre cominciarono a colpire il cemento alle nostre spalle e il terrapieno sul quale correva l’autostrada. «Non perdete i badili» gridò Del. Raccolsi da terra un sasso di buone dimensioni, in un certo modo sollevato dal sapere che eravamo inseguiti da semplici sciacalli. Alle mie spalle c’era solo nebbia, nebbia e ululati, ma i sassi sbucavano dal nulla con buona frequenza. Tirai il sasso contro una sagoma scura e corsi dietro gli altri, inseguito da ululati che erano come minimo animaleschi e potevano essere anche umani. Ma sopra ogni rumore si alzava il suono ondeggiante. «Henry!» gridò Steve. Gli altri erano scesi con lui dal terrapieno. Saltai giù e li seguii fra le erbacce. «Prendete dei sassi!» ordinò Steve. Ubbidimmo e li scagliammo subito sull’autostrada alle nostre spalle. Ci furono grida di risposta. «Ne abbiamo colpito uno!» disse Steve. Ma era impossibile esserne sicuri. Risalimmo sulla carreggiata e continuammo a correre. Lo stridio si allontanò dietro di noi. A un certo punto sbucammo nella valle San Mateo e sulla cresta Basilone, proprio sopra la nostra stessa valle. Dietro di noi il rumore continuò, attutito dalla distanza e dalla nebbia.

«Doveva essere una sirena» disse Steve. «Quella che chiamano sirena. Una macchina per produrre rumore. Chiederemo a Rafael.» Tirammo più o meno in direzione della sirena i sassi rimasti e superammo di buon passo la cresta entrando in Onofre.

«Sciacalli puzzolenti!» disse Steve, mentre, ormai sul sentiero del fiume, riprendevamo fiato. «Vorrei sapere come hanno fatto a scoprirci.»

«Forse erano in giro da quelle parti e ci hanno trovati per caso» suggerii.

«Poco probabile.»

«Già.» Ma non riuscivo a immaginare spiegazioni più attendibili, né d’altra parte Steve ne offrì. Comunque, era attendibile quanto l’esistenza di quel rumore assurdo.

«Vado a casa» disse Mando, con una traccia di sollievo nella voce. Non sembrava lui, forse era spaventato. Un brivido mi corse lungo la schiena.

«Sì, vai pure. Per questa volta i frugamacerie la fanno franca.»

Cinque minuti dopo avevamo raggiunto il ponte. Lo attraversammo; Gabby e Del si diressero a monte del fiume. Steve e io ci fermammo alla biforcazione del sentiero. Lui cominciò a discutere della nottata, imprecando con uguale intensità contro gli sciacalli, il vecchio e il defunto John Appleby; era chiaramente su di giri, pronto a continuare fino all’alba. Ma io ero stanco: non avevo la sua resistenza ed ero ancora sottosopra per l’ululato. Sirena o non sirena, era un suono terribilmente inumano. Perciò augurai a Steve la buona notte ed entrai di soppiatto nella baracca. Il russare di Pa’ perse un colpo, riprese con regolarità. Tagliai un pezzo della pagnotta del giorno dopo e lo mandai giù in fretta; sapeva di terriccio. Tuffai le mani nel secchio dell’acqua e le lavai, ma continuarono a sembrarmi sudice e puzzavano di tomba. Lasciai perdere. Mi distesi sul letto, sentendomi sporco di terra. Mi addormentai ancora prima d’essermi scaldato.

2

Sognavo il momento in cui avevamo iniziato a riempire la fossa. Grumi di terriccio colpivano la bara cavandone quel rumore orribile, bonk bonk bonk; ma nel sogno era un bussare dall’interno, sempre più forte e più disperato, a mano a mano che la fossa si riempiva.

Pa’ mi svegliò nel mezzo dell’incubo. «Stamattina sulla spiaggia hanno trovato un cadavere gettato a riva» disse.

«Eh?» risposi. Saltai dal letto, confuso. Pa’ si scostò, sorpreso. Mi chinai sulla bacinella e mi lavai il viso. «Cos’hai detto?»

«Hanno trovato uno di quei cinesi. Sei tutto sporco di terra. Cosa t’è successo? Sei stato fuori, ieri notte?»

«Sì. Costruiamo un nascondiglio.»

Pa’ scosse la testa, perplesso, con aria di disapprovazione.

«Muoio di fame» aggiunsi, allungando la mano verso la pagnotta. Dallo scaffale presi una tazza e la tuffai nel secchio dell’acqua da bere.

«C’è rimasto solo pane.»

«Lo so.» Staccai un pezzo di pagnotta. Il pane di Kathryn era buono anche vecchio di qualche giorno. Andai ad aprire la porta: un cuneo di luce attenuata tagliò la penombra della baracca priva di finestre. Sporsi la testa: sole smorto. Lungo il fiume, alberi inzuppati d’acqua. Nella baracca la luce cadde sul tavolo da cucito di Pa’, con la vecchia macchina tutta lustra per gli anni d’uso. Accanto al tavolo c’era la stufa; sopra di essa, vicino al tubo che forava il soffitto, lo scaffale per gli utensili. Tutto questo, più la tavola, le sedie, l’armadio e i due letti, completavano i nostri averi: i semplici averi di un sempliciotto con un mestiere semplice. In realtà la gente non aveva alcun bisogno che Pa’ cucisse i vestiti…

«Farai bene a scendere alle barche» disse Pa’, severo. «È tardi, avranno già cominciato a metterle in acqua.»

«Umf.» Pa’ aveva ragione, era tardi. Continuando a masticare bocconi di pane, m’infilai scarpe e camicia. «Buona fortuna!» mi gridò dietro Pa’, mentre correvo via.

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